30 dicembre 2005
Nel momento in cui un anno volge al termine e siamo magari in procinto di affrontare un pasto dove il superfluo vorrebbe illuderci che saremo sempre nell’abbondanza, può essere utile soffermarci a contemplare il pane, questo umile cibo “generato” dalla terra attorno al Mediterraneo, alimento così quotidiano sulle nostre tavole eppure attorno al quale siamo invitati a chiederci se sappiamo davvero che cosa mangiamo. Abituati come siamo a consumare cibo in fretta, un po’ ovunque, anche in assenza di una tavola, possiamo dire che ingoiamo alimenti come carburanti, ma così facendo sostentiamo solo il nostro corpo animale e non l’intero nostro essere. Eppure il pane nella sua quotidianità, nel suo essere sempre presente sulla tavola, dovrebbe ricordarci che mangiandolo noi compiamo un’azione che è molto di più del semplice nutrirci. Proprio perché si è perso il senso del pane e non si è più capaci di “capire il pane”, oggi questo alimento viene così facilmente trascurato e sostituito con tanti prodotti alternativi la cui unica positività consiste in una negatività, quella di non farci ingrassare.
Storicamente, il pane è nato nel terzo millennio avanti Cristo in Egitto, in prossimità del Mediterraneo dove nella coltivazione di diversi cereali finisce per eccellere il frumento. E con l’apparizione del pane si afferma la civiltà, la distinzione tra i barbari che mangiavano poltiglie di cereali selvatici e i popoli civili che conoscevano la coltivazione del grano e la cottura e vivevano la dimensione della tavola con il pane preparato: è attestato che nel III secolo dopo Cristo i greci conoscessero 72 tipi di pane diversi... Cotto dagli assiri in otri di terracotta, dai greci sotto la cenere, dagli ebrei su pietre arroventate, il pane diventa il nutrimento base del corpo e dello spirito, assumendo valenze religiose e caricandosi di valori simbolici.
Certo, in un buon dizionario possiamo trovare la definizione di pane come “alimento che si ottiene cuocendo al fuoco un impasto di farina, solitamente di frumento, e acqua, condito con sale e fatto lievitare”, ma il pane è molto di più. È simbolo della vita dura (“ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte”); quando è abbondante o di “fior di farina” è simbolo della vita e della festa; e ancora: è simbolo della condivisione, del frutto del lavoro di molti, della solidarietà, della “com-pagnia” autentica.
Fin dalla mia infanzia contadina ho imparato a contemplare il cibo, a interrogarmi sul cibo e, di conseguenza, a “gustarlo”. Le nostre case in Monferrato erano povere abitazioni: il locale che dava sulla strada del paese era al contempo cucina, stanza per accogliere, luogo in cui si viveva: era il “focolare”, la casa stessa. Sul tavolo al centro di quel locale, a casa mia era tradizione che ci fosse sempre durante il giorno una bottiglia di vino, un orciuolo di olio e una grande pagnotta (la “grisia”). Un tovagliolo di lino proteggeva il pane dalle mosche e recava la scritta, ricamata da mia madre, “il pane, il vino e l’olio ci diano consolazione e saggezza”. Mi sono sempre portato dentro questo ricordo che mi ha sollecitato a pormi sempre davanti al cibo con domande, desiderio, attenzione.
E nella vita contadina il pane sulla tavola richiamava immediatamente i campi di grano che si alternavano alle vigne: il loro giallo che si stagliava nel cielo sembrava dilatarsi fino a colorare le tele di Van Gogh. E in mezzo a tanto bagliore, l’occhieggare di fiordalisi e papaveri – allora al riparo dai diserbanti, così efficaci e spietati verso la bellezza che “non serve” – memoria visiva della gratuità, come osservava il teologo Bonhoeffer, inno silenzioso all’amicizia che si intreccia all’amore coniugale.
Più tardi ho percepito nella vita monastica che il pregare sempre prima di mangiare, così come il pasto consumato a volte in silenzio, aiuta maggiormente la consapevolezza che noi siamo quello che mangiamo: pregare prima di un pasto, infatti, significa dilazionare la consumazione del cibo che ci sta davanti, assumere una distanza, mettere un freno allo scatenarsi della voracità, non cedere a un approccio consumistico verso gli alimenti per cercare invece di capire il senso di quel nutrirsi. Così, ci si può rendere conto, per esempio, del fatto che quando ci si mette a tavola il pane è già lì, precede i commensali e rimane presente durante tutto il pasto e il susseguirsi delle pietanze, e sprigiona tutto il suo potere di attrarre a sé l’attenzione.
Il pane in tavola: un tempo era un vero e proprio rito, soprattutto quando era costituito da un’unica, grande pagnotta per tutti i commensali. Doveva essere posato diritto sulla tovaglia, disposto al centro o accanto a chi presiedeva la tavola, ne andava spezzato o tagliato solo quel tanto che si sarebbe mangiato, poi veniva distribuito, facendo attenzione che non cadesse a terra, non si dovevano avanzarne dei pezzi e le stesse briciole venivano raccolte alla fine del pasto e sparse sul davanzale della finestra a nutrire gli uccelli, soprattutto d’inverno, quando la neve toglieva allo scricciolo, al pettirosso, al passero la possibilità di trovare semi...
Il pane, simbolo della natura e insieme della “cultura”, dell’agire dell’uomo in armonia con la natura. “L’uomo trae il pane dalla terra” narra con forza evocativa il salmo 104, a ricordare che il pane è lì, ma al contempo solo l’uomo sa “trarlo fuori”, sa chiamarlo alla vita. La terra, infatti, deve essere arata, poi sminuzzata dall’erpice, poi seminata in attesa della pioggia feconda e della neve che custodisce e protegge il lento e sicuro germinare: “in inverno, sotto la pioggia fame, sotto la neve pane”, recita un antico proverbio, erigendo il pane a nutrimento per eccellenza, unico antidoto alla fame. Infine, una volta che la terra accompagnata dal lavoro dell’uomo offre il grano nella spiga, ecco ancora la sapienza dell’uomo che non si accontenta di sgranocchiare dei chicchi magari abbrustoliti, ma si preoccupa della mietitura e della trebbiatura – raccolta e discernimento al tempo stesso – poi della molitura che predispone il grano a una nuova armonia con altri elementi della natura: la farina può così mescolarsi all’acqua, al sale, al lievito. Pochi, semplicissimi elementi, ma accostati con grande sapienza e fantasia, con pazienza e destrezza: quale varietà di forme e di consistenza già nella pasta, prima che la cottura aggiunga colore, profumo e fragranza e inglobi nel greve impasto la leggerezza e il soffio spirituale dell’aria... Sì, il pane cibo reale eppur simbolico, capace di evocare una realtà che va la di là del nutrimento materiale e di suscitare domande sul senso di ciò che fa vivere.
Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uomo, della natura e della cultura, il pane esprime il bisogno, ciò che davvero è necessario per vivere. Non a caso la parola “pane” indica cibo essenziale e non superfluo: quando diciamo che “non c’è pane”, evochiamo fame e carestia, così come non c’è spiegazione più tragicamente semplice del fenomeno migratorio dell’evidenza che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame. Una corsa, quella cui assistiamo oggi sulle sponde del Mediterraneo, che segue il percorso compiuto proprio dalla cultura del pane quasi cinquemila anni fa. Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità o meno a spezzarlo perché tutti ne possano avere, pane che, secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo quando è spezzato e condiviso.
E la civiltà del Mediterraneo ha sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino. Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il dono accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino dà gusto alla vita; il pane ritempra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino ne addolcisce le fatiche. Pane e vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in quei due semplici alimenti, quanti volti appaiono dietro di loro! Il contadino e il mugnaio, il fornaio e il vignaiolo, e poi il bottaio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della mietitura, il silenzio delle cantine e dei granai, il rumore della mola e il pigiare nei tini... E ora sono lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci la qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo e su come desideriamo che sia il nostro mondo.
Forse anche per questo, come ha giustamente osservato Predrag Matvejevic, “la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o simili”. Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua. Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la “tavola del Signore”. È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo. E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
Anche così si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità. Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo. E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte.
Allora, in questo finire di un anno, non dimentichiamo che, come ricorda con sapienza un proverbio monferrino, “el pan ’d seira l’è bon adman”, “il pane di ieri è buono domani”: ciò che ci ha nutrito nel nostro passato, ciò che è stato cibo essenziale nelle stagioni già trascorse, sarà buono anche per il tempo che ci attende, sarà ancora capace di darci vita, gioia, serena condivisione nel nostro stare al mondo accanto a quanti amiamo.
Enzo Bianchi