7 agosto 2005
In questa stagione in cui le dinamiche del rapporto tra chiesa e politica, tra cattolici e laici, tra fede e impegno nella polis subiscono mutamenti accelerati, è forse utile riprendere la riflessione, anche perché in diverse occasioni sembra accendersi un conflitto soprattutto sulla chiesa italiana e sui suoi interventi nella società civile in cui si colloca. Abbiamo ascoltato accuse di ingerenza, lamentele per sconfinamenti dell'autorità ecclesiastica – misurati anche sulla normativa del concordato tra santa Sede e Stato italiano – accuse di integralismo o di fondamentalismo, mentre da parte dei credenti si è denunciato un laicismo intollerante che sconfinerebbe in dittature dovute a minoranze agguerrite ed efficaci. Sì, il conflitto è in atto ma, a mio giudizio, lo è anche per una certa confusione, una mancanza di chiarezza su ciò che veramente è la chiesa e su cosa essa può o non può fare.
Innanzitutto andrebbe ricordato che non tutti i cittadini cristiani residenti in Italia appartengono alla chiesa cattolica, alla quale, in considerazione della sua consistenza numerica nettamente maggioritaria, ci riferiamo normalmente quando usiamo il termine “chiesa”. Inoltre occorrerebbe avere chiara la distinzione tra chiesa come comunità di tutti i cattolici e gerarchia ecclesiastica, sovente chiamata in causa con il termine inglobante di chiesa. La chiesa è una comunità che per i credenti appare anche come un “mistero”, una realtà cioè non pienamente visibile, non interamente spiegabile, non esaurientemente rappresentabile in quanto è realtà complessa, che si manifesta nella sua essenza soprattutto quando celebra la liturgia eucaristica. Questa realtà-chiesa, su cui soprattutto si è focalizzata l'attenzione teologica dell'ultimo secolo, ha in essa una struttura di guida episcopale (è “gerarchica”, per usare il termine proprio) coadiuvata da presbiteri e da altre figure che svolgono compiti diversi ma tutti tendenti all'edificazione e alla compaginazione in comunione dell'insieme dei battezzati. Questa “istituzione” - papa, vescovi, presbiteri, monaci, religiosi... - non è la chiesa se non assieme agli altri fedeli, i cosiddetti cristiani “laici”.
Ne consegue che questi ultimi sono chiamati a partecipare a pieno titolo all'edificazione della polis, anche attraverso l'arte del governo come necessità societaria che concerne anche i cristiani. Per questo, senza esenzioni, senza fuga dalla società, si impegneranno nella politica con gli altri uomini e donne non cristiani, restando tuttavia sempre fedeli al vangelo e alle sue ispirazioni. Spetta proprio a loro, in questa compagnia di umanità, lottare per la giustizia, per la pace, per la riconciliazione, per il rispetto e la qualità della vita e della convivenza. Nella seconda metà del secolo scorso, i cristiani nel nostro paese hanno mostrato questa loro capacità e, nonostante limiti e contraddizioni rispetto al vangelo, hanno compiuto un servizio alla società italiana, servizio di cui oggi si comincia ad apprezzare la portata. Sì, i cristiani devono contribuire a rendere la polis più abitabile e devono intervenire affinché tutta la politica sia veramente un servizio all'uomo e alla società.
E la gerarchia? Attualmente, dopo la stagione del partito dei cattolici, i fedeli impegnati in politica si trovano in una situazione di diaspora, ricca di elementi positivi, senza aver ancora elaborato nuove modalità di manifestare il proprio contributo specifico di cristiani, e sovente faticano a spiegare le proprie ragioni nell'agorà segnata dalla laicità in termini antropologici comprensibili ai non cristiani. In questa situazione, la tentazione della gerarchia può essere quella di entrare direttamente nell'azione politica e di sostituirsi a quell'azione che invece spetta proprio ai semplici cristiani. È a questo punto che la materia si fa delicata, ma l'insegnamento del Vaticano II dovrebbe costituire ormai un magistero consolidato. Dice il concilio: “La chiesa non desidera affatto intromettersi nella direzione della società terrena; essa non rivendica a se stessa altra sfera di competenza se non quelle di servire amorevolmente e fedelmente, con l'aiuto di Dio, gli uomini” (Ad gentes12). In questa linea, alla fine del 2002, la Congregazione per la Dottrina della fede ha emanato un documento sull'impegno dei cattolici in politica, dove si afferma che “non è compito della chiesa formulare soluzioni concrete – e meno ancora soluzioni uniche – per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno”.
Ecco perché la saggezza della tradizione e anche le norme del diritto canonico vietano che vescovi e presbiteri entrino nell'azione politica e possano essere eletti negli organismi che reggono la polis. Spetta ai semplici fedeli l'edificazione della città terrena, spetta a loro il discernimento e la prassi più idonea a rendere questo mondo più umano e maggiormente segnato da giustizia e pace, spetta a loro, nel confronto democratico con gli altri uomini, compiere le scelte politiche e giungere a legiferare. I pastori, dal canto loro, quali “sentinelle” nella chiesa, devono assolutamente ricordare a tempo e fuori tempo le esigenze del vangelo in materia etica, perché il cristianesimo è una fede, ma una fede “pratica” da cui derivano opzioni e comportamenti precisi in ambito morale. Ma questa predicazione resterà profetica, puntuale, fatta con parresia e discernimento, con “mansuetudine e dolcezza” come richiede l'apostolo Pietro, mantenendosi sempre nello spaziopre-economicoe pre-politico: sarà cioè una richiesta fondata sulle esigenze assolute del vangelo, ma lascerà che la loro traduzione nella prassi sia un cammino percorso dai fedeli, che dovranno con fedeltà e sapienza obbedire al vangelo e trovare realizzazioni condivise, per quanto possibile, anche dai non cristiani. Non spetta alle figure ecclesiali della gerarchia entrare nella tecnica, nell'economia e nella politica per trovarvi specifiche soluzioni, anche perché se il vangelo è sempre unitario nell'ispirazione, le soluzione per la sua realizzazione nella storia restano multiple e differenti.
Non soluzioni tecniche, non ricette politiche, ma la voce dei pastori sarà tanto più autorevole quanto più capace di essere voce del vangelo e non di risposte tecniche in merito all'attuazione delle esigenze evangeliche. Ecco perché è sbagliato sostenere, come qua e là si sente ripetere, che i vescovi pagano le tasse e sono cittadini di uno stato, liberi di entrare direttamente in politica come tutti i cittadini. A volte anche gli stessi laici ammettono questa logica, ma proprio per il fatto che considerano la chiesa come ogni altro gruppo presente nella società: il problema riguarda in modo decisivo la comunità cristiana la quale non troverebbe più la figura del pastore capace di suscitare l'unità della comunità e di rappresentarla nel suo insieme. Un pastore che faccia politica non lede le leggi di una democrazia in cui la chiesa è una delle tante realtà religiose, ma inocula nella comunità cristiana fermenti di divisione, sicché la sua cura del gregge non è più cura di comunione.
Scriveva il cardinal Martini: “Per l'annuncio profetico e coraggioso del vangelo, a volte sono necessari 'grandi silenzi', a volte 'una parola chiara', ma gli uni e l'altra dovrebbero avere sempre e solo un'eloquenza profetica. Questo pare teoricamente assodato, ed è ribadito anche dal consenso ecclesiastico che vieta ai ministri del culto la militanza politica, però di fatto è costantemente contraddetto da parole che non stanno nello spazio della profezia”. Certo, in Italia la chiesa è una delle componenti essenziali della società civile, e in essa i pastori devono parlare senza timidezza né intimidazioni, ma un'autentica deontologia pastorale chiede loro di fermarsi sul terreno delle indicazioni profetiche, senza spingersi a suggerire o, peggio, a esigere soluzioni tecniche, sia economiche che politiche, che devono invece essere vagliate e scelte dai fedeli nel confronto con le altre componenti, anche non religiose, della società. Non si tratta di creare steccati, ma di leggere con serenità e sapienza le diverse competenze e i rispettivi spazi, altrimenti un intervento, pur permesso dalle regole democratiche, contraddice quel sensus ecclesiaeche richiede distinzione dei compiti.
Quando i pastori, mossi dai principi del vangelo, intervengono nella società con la predicazione e la parola senza avanzare il diritto di dettare un'etica pubblica per tutti i cittadini, essi chiedono di essere ascoltati, consigliano, mettono in guardia, ma non pretendono che la legge evangelica sia tradotta in legge vincolante per tutti, se non quando la coscienza di tutti è concorde nel richiederlo: la chiesa accetta pacificamente di entrare nell'azione e nell'agorà con le proprie proposte, fa valere democraticamente le proprie posizioni, ne mette in luce le positività anche a livello antropologico e sociale, ma non pretende di essere l'unico criterio etico fondante la convivenza civile.
Enzo Bianchi