4 aprile 2005
A ragione in questi giorni in cui siamo chiamati a fare memoria di quegli aspetti dell’annuncio del Vangelo che il pontificato di Giovanni Paolo II ha reso più vivi e attuali all’interno della chiesa e di fronte al mondo. Tra questi emergono certamente il nuovo sguardo verso l’ebraismo, la ricerca dell’unità dei cristiani e il dialogo con le religioni non cristiane. Questi sono punti fermi di un pontificato che non ha avuto paura di abbattere frontiere e scalare muri insormontabili perché si potessero aprire, spalancare le porte a Cristo. Questa ferma volontà di dialogo e confronto nella verità e nel rispetto delle diverse identità non deve però far passare sotto silenzio un altro aspetto del ministero universale di papa Giovanni Paolo II: il dialogo con i non credenti, il confronto con l’ateismo.
È vero che Giovanni Paolo II non ha delineato un particolare insegnamento su questo dialogo, è vero che ha condannato l’ateismo come il grande male del secolo scorso che ha permesso lo scatenarsi di ideologie antiumane, ma di fatto il papa ha cercato di parlare ai non credenti più di ogni altro suo predecessore. Quando, al cuore della prima enciclica, ha proclamato che “l’uomo è la via della chiesa”, quando in modo ossessivo citava l’insegnamento del concilio sull’unità che l’incarnazione ha innestato tra Dio e ogni uomo, quando sulle tracce di papa Giovanni indirizzava le encicliche anche “agli uomini di buona volontà”, egli voleva tessere un dialogo con i non credenti. La sua fiducia nella ragione (Fides et ratio), il primato della persona e il rispetto dei diritti dell’uomo nei confronti dello stato e del capitale, sono luoghi del suo messaggio da lui ritenuti come condivisibili anche dai non credenti capaci di “pensare”, dagli atei non idolatri.
Indubbiamente, l’aver conosciuto e patito di persona il peso dell’ateismo di stato, la persecuzione e l’opposizione verso qualunque manifestazione pubblica della fede hanno influito sull’atteggiamento del papa nei confronti di chi ritiene di non dovere aderire a una religione e, pertanto, ricerca altrove il fondamento della propria etica. Ma questa pesante esperienza non ha mai impedito al papa di discernere due aspetti fondamentali che il mondo dei non credenti pone come “sfida” ai credenti, né tanto meno gli ha impedito di reagire di fronte ad essi tenendo il Vangelo come norma di vita e di comportamento. Il primo fenomeno è quello dell’ “indifferenza”, dell’incapacità di leggere le differenze, di cogliere l’alterità, di operare delle scelte tra ciò che si valuta positivo e ciò che si ritiene negativo: è il torpore spirituale di chi non vuole mai schierarsi, di chi si adatta a ciò che risulta più conveniente al momento, di chi rinuncia ad avere dei parametri di giudizio per non rischiare mai di operare una scelta che costa sacrificio e che può essere fonte di sofferenza. È di fronte a questa neghittosità, a questo quieto vivere nel timore di dover pagare un prezzo per le proprie idee e i propri comportamenti che Giovanni Paolo II ha reagito sempre con forza e fierezza, invitando a non avere paura, a mostrare con la vita, persino al prezzo della vita, l’importanza che si dà agli ideali in cui si crede: un invito umanissimo a non lasciarsi vivere, ma a riempire di senso la propria vita. Per Giovanni Paolo II solo chi ha una ragione per morire e dare la vita ha anche una ragione per vivere!
L’altra consapevolezza maturata dal papa in decenni di confronto con l’ateismo e i non credenti è quella che a volte i cristiani stessi non sono esenti da colpe nei confronti di questi atteggiamenti di rifiuto e di chiusura. È una consapevolezza che Giovanni Paolo II ha voluto esprimere esplicitamente e pubblicamente in occasione della solenne “Giornata del perdono” al cuore del Giubileo del 2000. Dopo aver riconosciuto “che anche uomini di Chiesa, in nome della fede e della morale, hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici nel pur doveroso impegno di difesa della verità”, il papa confessa che “i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza e non hanno seguito il grande comandamento dell’amore, deturpando così il volto della Chiesa”. Presentando quella liturgia del perdono, la commissione teologica che aveva preparato i testi fece riferimento esplicito alla “controtestimonianza e allo scandalo tante volte offerti dai credenti, causa di ateismo o di indifferenza verso la proposta evangelica”.
Sì, le responsabilità restano individuali, e ciascuno renderà conto della propria accoglienza o del proprio rifiuto all’appello della coscienza, ma i cristiani devono costantemente interrogarsi – disse Giovanni Paolo II – se a volte non sono “i loro stessi comportamenti a spingere gli uomini all’ateismo” con il presentare un volto di Dio perverso in netta contraddizione con il Vangelo.
Compito gravoso ma ineludibile: anche da ciascuno di noi dipende il volto che la Chiesa e che Cristo stesso assume agli occhi di chi non lo confessa come suo Signore, di chi non “può” credere, da ogni singolo credente può dipendere il dilatarsi o il dissolversi dell’incredulità del non credente che gli sta accanto. Certo, solo dei non credenti capaci di combattere ogni forma di idolatria sono anche capaci di comprendere questo messaggio dato da Giovanni Paolo II.
Enzo Bianchi