Corriere della Sera - 4 marzo 2005
Quando mi raggiunse la notizia dell’attentato e del crollo delle “Torri gemelle” insieme all’orrore affiorarono dal mio profondo due ricordi: innanzitutto una poesia di Thomas Merton del 1947, che lamentava:
La luna è più pallida di un’attrice, e ti piange, New York…
… Come sono state distrutte, come sono crollate,
quelle grandi e possenti torri di ghiaccio e d’acciaio,
fuse da quale terrore e da quale miracolo?
Quali fuochi, quali luci hanno smembrato,
nella collera bianca della loro accusa,
quelle torri d’argento e d’acciaio?
e poi il quadro di William Congdon, New York City, explosion, del 1948: al centro un’esplosione nera che fa rovinare gli altri palazzi ridotti a ferri contorti, nero che invade case e strade in un caos infuocato…
Thomas Merton e William Congdon, due “visionari” più che contemplativi o, meglio, visionari perché capaci di andare oltre la contemplazione, la “theoria”: potremmo quasi dirli “profeti” se la profezia, la pura profezia, è anche ciò che è presente dentro l’oggetto della scrittura (parola o immagine) e che l’autore stesso non può ancora capire, perché se lo capisse non lo scriverebbe né lo dipingerebbe (cf. W. Congdon, Il viaggio continua, p. 39). Congdon non ha mai cessato di essere un visionario: ha cominciato con il guardare la città scorgendovi un sole nero e il nero della sofferenza su cui sorge un sole, una luna, “un oriente” appunto (La città neradel 1948-49), per poi, una volta approdato nella vecchia Europa, cercare di narrare le città cariche di memoria storica – Atene, Roma, Parigi, Venezia, Assisi… - ma segnate dal vuoto, da un’impotenza a essere luogo di comunità e, nello stesso tempo, dalla capacità di essere grembo che partorisce e lascia crescere il male, il dolore, la devastazione.
Poi il Crocifisso: non la croce, significativamente, perché la croce è solo uno dei molteplici strumenti di esecuzione e di morte, ma il Crocifisso che chiede di fissare lo sguardo scavando sull’uomo: “Scavate pure nei miei quadri e vedrete come l’autorità della forma è in fondo quella della struttura umana”. La ossessiva serialità dei crocifissi (quasi 200!) significa tenere lo sguardo fisso sul corpo umano che radicalmente è soltanto narrato nella sua condizione più autentica dal Crocifisso. Il corpo umano: epifania di morte, di corruzione, di disfacimento cinereo, ma in cui attraverso l’annientamento è possibile contemplare il “figlio dell’uomo”, l’umano che “ha narrato” (exeghesato, cf. Gv 1,18) e narra Dio e il suo amore folle che lo porta ad assumere la debole carne dell’uomo votata alla morte e carica dell’incapacità di rispondere a questo amore: e quest’ultimo è, per William Congdon, il solo peccato!.
Fra il 1959 e il 1979 c’è sì al centro il Crocifisso, come sottolinea l’Atlante dell’opera, ma in una parabola che è sempre di più una ricerca di kenosis. Nei primi crocifissi c’è l’appeso “senza volto” (aprosopon): solo un capo reclinato con i capelli che cadono assieme al corpo bianco, anzi precipitano… E tuttavia, proprio perché in questi crocifissi non c’è il nulla definitivo, ecco apparire l’ “amorevole nuvola” che avvolge il capo: sprazzi di luce dorata, quasi promessa di risurrezione, che appariranno ancora ne Il sepolcro(17.V.1974) e nel Crocifisso 165 del 1979. Ma i crocifissi senza volto sono tracciati con semplicità sempre maggiore, da pochissimi colpi di spatola: tre nel Crocifisso 52 (17.II.1972), due nel Crocifisso 54 (sempre del 17.II.1972), fino a essere colpi di spatola sovrapposti, un corpo informe e senza articolazioni, una colata di cenere mescolata a colore, un grumo di lava e silenzio. Adamo, il terrestre, l’uomo fatto di cenere e impastato di male e di dolore, “larva, non uomo… rifiuto umano… senza ossa articolate” (Salmo 22,7.15): eppure è in questa cenere che Dio si è compiaciuto e ha compiuto la sua teofania.
Thomas Merton l’aveva ben capito quando, nell’introduzione a “Nel mio disco d’oro”, scriveva: “spira nella pittura di William Congdon un’aria di teofania che impone il silenzio e dovrebbe imporlo sia al religioso sia al critico d’arte”. Non solo si fa silenzio di fronte ai Crocifissi di Congdon, ma ci si chiude la bocca, come alla visione del Servo senza volto del profeta Isaia. Chiudersi la bocca, ammutolire in silenzio: sorge quasi un desiderio istintivo di coprirsi il volto per non vedere, simultaneamente all’essere attratti dal Crocifisso, spinti a volgere su di lui lo sguardo (cf. Gv 19,37). Nei Crocifissi di Congdon c’è una vera theologia crucis, perché essi sono una cattedra della scientia crucis: ogni Crocifisso è una “parola della croce”, appunto non la croce ma il Crocifisso (cf. 1Cor 1,18 ss.).
Il “Crocifisso” di William Congdon è il ricettacolo della maledizione, della morte infamante, dell’agonia umana, anzi è la carne, il corpo, epifania di come noi uomini siamo malati di follia, disfatti dal peccato, perduti nell’abisso dei nostri amori mancati e sbagliati, comunque sempre incapaci, impotenti ad avere una pienezza. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Salmo 22,1), ma anche “Dio mio, Dio mio perché ti sei abbandonato e sei precipitato facendoti uno di noi?”. E la risposta della fede è semplice, senza spiegazioni possibili: “Per amore!”. Risposta deposta nel cuore di Congdon dalla conversione a Cristo, ma risposta che non risale dall’interno del cuore se non per la forza della grazia.
Con ragione Rodolfo Balzarotti osserva che la pittura di Congdon è separata dallo spazio liturgico, non è a servizio della liturgia, ma nella liturgia c’è bisogno della consapevolezza espressa dai Crocifissi di Congdon, consapevolezza che in essa tutto l’uomo con il suo peccato e la sua devastazione sono portati e assunti per essere redenti.
Non solo si crea, ma anche ci si salva nel dolore della propria incapacità alla santità: “Non cerco nella mia pittura una misura della mia conversione … invece, per il fatto che Cristo è venuto per empire tutto di sé nel modo di essere di ogni cosa. Anche se non mi fosse tolta questa divisione tra la disunità della mia persona e l’unità della mia opera, Cristo riconciliando tutto in sé ne toglie la condanna” (Un artista, la sua vita e la comunità cristiana, dattiloscritto 29.VI.1971, p. 29).
Ed eccoci alla stagione matura del silenzio, agli ultimi quindici anni, quando la visione di Congdon è rigenerata. Allora, non a caso la nebbia diventa calligrafia del silenzio. Nel diario la parola “silenzio” si fa martellante: “Questo silenzio come partenza del quadro è la virtù e per virtù (o grazia) della nebbia – mi è stata tolta ogni cosa – ma viene rivelata per il filtro (spirito) della nebbia. Questa è la realtà dell’arte veramente sacra” (Diario 7 gennaio 1983). Beppe Barbieri a ragione legge qui una svolta radicale nella pittura di Bill, perché in essa ormai l’eloquenza è del silenzio.. Non a caso nel diario è evocato il silenzio di Rothko (26 febbraio 1983), ritenuto da Congdon “padre” e “maestro”, quel silenzio che accoglie chi prega nella cappella ecumenica di Houston.
La serienebbiaemerge dal silenzio, ma dal silenzio assoluto emergono anche la serie cielo e terra, “essenzialmente una cosa sola” (13 febbraio 1983) e quindi le monocromie silenziosissime del mais, dell’orzo, del giallo con sole. “La novità dei quadri di tutto un colore è che, se c’è un segno aggiunto, questo è incorporato dentro il tutt’un colore e non sovraimposto come previamente fatto. Anche il giallo con sole di oggi è così: il sole è quasi invisibile”. I segni sono silenti ma fanno sentire la Presenza in quella spessa materia del mondo, e il colore è carico dell’esperienza della vita.
Congdon così scrive nel Diario: “Io dipingo non come vedo ma quel che vedo: ho dipinto la nebbia adesso; vista solo la nebbia, ho dipinto solo la nebbia senza alcun segno di oggetto non essendocene fuori della nebbia stessa… A chi mi dice: ‘è astratto’, io rispondo che è l’opposto dell’astratto, è l’oggetto totale” (Nebbia oggetto di 3 dimensioni, Manoscritto 25.I.1989). Ma la nebbia per Congdon non è cecità, impossibilità a vedere, perché lui stesso ha detto: “Che cosa ti rivela la nebbia? Rivela l’uomo, l’uomo che soffre… Non c’è niente di ciò che Dio ha fatto che non sia strutturato sull’uomo: anche il cielo… Il mio occhio perfora, trapassa il nulla della nebbia come il cielo e lo empie della mia vita” (L’arte, uomo nelle cose e il tutto nel nulla, Manoscritto 1.III.1985). Comunione con le cose, “res” (sunt lacrimae rerum!), dipingere come pregare, esperienza di comunicazione ma anche di trasfigurazione che unisce le cose nell’immagine (cf. Diario 27 aprile 1991).
Ed infine questo silenzio lo si sperimenta più che mai stando davanti alla Finestra I (1992) o alla Finestra Monastero (1994). Silenzio di attesa perché la finestra si spalanchi e la luce accolga: quella luce di sole o luna, “oriente” sempre, perché sempre luce che spunta, a William Congdon non è mai mancata. Aveva asserito: “Si crea nel dolore della propria non santità”, ed era vero, ma la creazione nel dolore, autentico parto, lo ha rigenerato: Congdon è stato toccato dalla santità perché solo chi conosce la propria non santità, il proprio peccato, sa arrendersi alla grazia che santifica! Congdon ha amato la Luce: anche all’inferno l’ha sempre cercata e intravista.
Enzo Bianchi