12 febbraio 2005
Ancora una volta assistiamo a brusii, rumori, chiacchiere e interpretazioni intorno al ricovero in ospedale di Giovanni Paolo II, un papa giunto alla pienezza dei giorni e, a causa della malattia, prostrato, affaticato, ostacolato nel linguaggio e nella mobilità del proprio corpo. Così, e molti diranno che non può essere diversamente data la qualità pubblica e l’importanza della persona, si comincia a interrogare i membri di un prossimo conclave e si vuole trovare qualcosa che stupisca e addirittura possa scandalizzare il comune cristiano e l’uomo di oggi, sempre più indifferente alla fede cristiana ma ancora attento e sensibile alle figure-simbolo sociali. La pressione mediatica è forte, insistente, ma perché finire in una sudditanza ai media e non avere più la forza di custodire eventi che sono invece occasioni preziose per interrogarsi sulla vita reale e profonda della chiesa e sul necessario esercizio del ministero petrino?
In questo modo mi sembra non si colga l’occasione per riflettere in modo serio e sapiente su una verità umana, umanissima che riguarda tutti e ciascuno di noi, una realtà che è soprattutto quella che la buona notizia cristiana vuole illuminare. Sì, c’è l’enigma del male, della sofferenza e della malattia legato alla condizione umana: un salmo attribuito al grande Mosè ricorda che “la nostra vita arriva a settant’anni, a ottanta se ci sono le forze… quasi tutti sono fatica e dolore, presto è finita e noi ce ne andiamo”. Credenti e non credenti abbiamo nel cuore “una nostalgia, un desiderio, un senso di eternità”, sentiamo la morte come contraddizione a ciò che viviamo, speriamo, amiamo; tutti noi sentiamo il dolore in tutte le sue manifestazioni come un enigma, ma per i cristiani l’enigma si trasforma in mistero, cioè in qualcosa che rivela, “alza il velo” e apre una strada di salvezza: una vita nuova, una vita in cui non c’è più pianto, né angoscia, né situazione disperata, né morte. Così la fede cristiana consola quelli che hanno creduto a Gesù Cristo.
Certamente Giovanni Paolo II, anche lui discepolo del Signore, vive questo passaggio nella “valle stretta e oscura”, applica a sé le parole dell’apostolo Paolo nella seconda lettera ai Corinti, che sa leggere come il corpo, “l’essere esteriore” si va disfacendo, ma che esperimenta anche come “l’essere interiore” si rinnova di giorno in giorno. Più volte abbiamo constatato questa verità nelle vicende di ferite e malattie di Giovanni Paolo II: il corpo che si incurvava, il suo appoggiarsi al bastone, il suo faticoso stare in piedi, la debolezza sempre più accentuata della voce… ma anche il crescere in lui della convinzione, della fede, della forza, frutto della perseveranza di tutta una vita spesa a servizio della comunione ecclesiale e dell’umanità bisognosa innanzitutto di giustizia, perdono, pace.
Chi è cristiano sa e sperimenta che debolezza, fragilità, diminuzione delle forze fisiche possono significare crescita di energie spirituali, di sapienza, di consapevolezza e di conoscenza della condizione umana. Il cardinale Sodano ancora una volta ha pronunciato parole di grande sapienza e discernimento: ha ricordato che nella chiesa l’anzianità è un valore – ci si dimentica che il nome “presbitero” significa anziano! – perché al termine di una vita vissuta umanamente in giustizia e carità si raccoglie il frutto non solo dell’esperienza ma anche della sapienza; ha ricordato che comunque il Signore, pastore dei pastori, sa guidare la chiesa in ogni situazione, non abbandona la sua comunità e, ancora, che il problema dell’eventuale rinuncia del papa al suo servizio petrino spetta solo alla sua coscienza. Sì, il papa sarà guidato dall’amore, e nella libertà sceglierà cosa fare in caso di grave impedimento.
Qui sento di dover dire alcune parole che suonano in contraddizione con altre udite qua e là. Innanzitutto, i cristiani cattolici credono che il servizio del successore di Pietro è essenziale per la chiesa, che il Signore stesso ha voluto questo servizio di comunione per confermare i fratelli nella fede, ma sanno anche che il Signore è Signore della chiesa e che anche quando venisse a mancare il papa i cristiani non sono orfani né la chiesa soffre separazione dal Signore. Nei confronti di questo papa, come nei confronti di altri, occorre avere fiducia, rispettare il mistero della sua persona e della sua sofferenza. Sì, la verità è che la chiesa prega e pregherà per il papa malato, come pregava per Pietro in prigione a Gerusalemme, ma con piena fiducia che il Signore non abbandonerà mai la chiesa perché ne resta sempre lui solo il Signore.
Ci sono poi i suoi collaboratori, da lui scelti e voluti: e anche costoro, proprio perché posti a collaborare al servizio petrino, pur non essendo per stato esenti dal peccato, sono dotati di profondo sensus ecclesiae. Voci o schiamazzi, papolatrie untuose o mancanza di rispetto umano al mistero della sofferenza di una persona non sono degne dei cristiani. Da ogni situazione, invece, può venire soltanto del bene se quanti vi sono coinvolti predispongono tutto affinché ogni cosa avvenga conservando la fede e secondo carità, cercando la verità nella dolcezza della comunità.
Molti si interrogano anche su questa “ostensione” della malattia di Giovanni Paolo II, ma va detto che anche questo modo di vivere la malattia e la corsa finale della vita è qualcosa che va rispettato, nella consapevolezza che esso riguarda l’intimità della persona: secretum meum mihi, “ciò che è nel mio intimo riguarda me”, dice tutta la tradizione spirituale. Ci sono papi, patriarchi, cristiani che hanno sofferto e sono morti in modo molto diverso: c’è chi quasi si nasconde, vive la malattia nella solitudine, dando all’itinerario finale la dimensione dell’intimità. Il grande patriarca Athenagoras, giunto a ottantaquattro anni e vistasi avvicinare la sua ora a seguito di una caduta con frattura del femore, chiese ai suoi collaboratori di essere lasciato solo in camera, con accanto al letto il pane e il vino eucaristici, per poter morire solo come un monaco. C’è chi, come Pio XII e Paolo VI, ha percorso un cammino in modo molto silenzioso e intimo; c’è Giovanni XXIII che con grande sapienza e decisione è passato da questo mondo a Dio in modo glorioso, con tutto il mondo, potremmo dire, al suo capezzale…
Le modalità nel vivere la malattia sono diverse: quello che è determinante nella vita cristiana è che sempre sia vissuta non come un evento che ci domina ma come un’occasione per fare di se stessi un “figlio di Dio”, per mostrare verso tutti di essere un fratello, una sorella che, anche nella dolorosa esperienza della malattia, sa amare e accetta di essere amato: questo è l’elemento essenziale per vivere da cristiani l’approssimarsi della morte, al di là delle differenti modalità. Non a caso, anche la morte di Gesù è narrata in modi diversi: nel Vangelo di Marco, Gesù muore solo, abbandonato da tutti, muore nell’angoscia con un grido sulle labbra; nel quarto Vangelo, invece, muore come se regnasse, in un commiato glorioso dai suoi, cominciando a regnare sull’universo; nel Vangelo di Luca la morte di Gesù è chiamata “spettacolo, contemplazione” perché avvenuta di fronte a molta gente che lo ha visto morire tra due malfattori e ha potuto sentire le parole di quel condannato rivolte a uno dei compagni di supplizio: “Oggi sarai con me nel Pardès, in Dio”.
Giovanni Paolo II ha lasciato l’ospedale ed è tornato in Vaticano: rispettiamo il suo dolore, la sua malattia, la sua convalescenza, non pretendiamo di “vederlo” a ogni costo e subito, non sottostiamo alle esigenze poste dai media per cui uno esiste solo se “appare”. Nel messaggio per la Quaresima, scritto pochi giorni prima di essere ricoverato, il papa ha ricordato che “l’invecchiamento, con i suoi inevitabili condizionamenti, può diventare occasione preziosa per meglio comprendere il mistero della croce che dà senso pieno all’umana esistenza”. Parole scritte certamente per se stesso e per noi. Sì, anche quest’ora del suo pontificato è un’occasione propizia da vivere con sapienza.
Enzo Bianchi