12 giugno 2004
Dall’inizio di maggio alcuni eventi ci hanno ricondotto a “pensare” l’Europa, i suoi confini, le sue radici, la sua storia, la sua essenza. Dapprima l’allargamento, attraverso l’ingresso di dieci nuovi paesi nell’Unione Europea: mutamento che sarebbe più appropriato definire “ritorno” a una dimensione antica, “ritrovamento” di un equilibrio maggiormente spostato a est e al Mediterraneo. Poi il sessantesimo anniversario di un’operazione militare assurta a simbolo dell’inizio del crollo del mostro nazista: lo sbarco delle truppe alleate in Normandia. Infine il voto per eleggere i rappresentanti delle venticinque nazioni al nuovo Parlamento europeo: appuntamenti e ricorrenze che ci spingono a leggere insieme la nostra storia. In particolare, la presenza del primo ministro tedesco alle celebrazioni per la liberazione dell’Europa dal giogo hitleriano è apparsa altamente simbolica: “i nemici del passato – ha sottolineato Schroeder – costruiscono insieme il presente”, vincitori e vinti di una guerra di sessant’anni prima si riconoscono eredi di un unico destino, solidali nel riaffermare la volontà di far prevalere il dialogo sull’odio e la democrazia sul totalitarismo, uniti nell’operare affinché la catastrofe della barbarie non abbia “mai più” spazio nella vita di popoli un tempo nemici.
Il lento, faticoso, a volte contraddittorio coagularsi degli stati europei in un’entità che li accomuna e li oltrepassa ha da tempo messo a punto dei parametri economici e commerciali per definire un mercato comune e per sanzionare scostamenti e inadempienze dannose per l’insieme degli stati. Il cammino verso un’unione anche di intenti e di valori ha inoltre compiuto passi significativi nel richiedere precise condizioni di rispetto dei diritti umani e di norme democratiche ai paesi desiderosi di unirsi al nucleo esistente. Più ancora che dell’assenza di una politica estera e di una forza militare comune, ci si potrebbe rammaricare della mancanza di una “Maastricht culturale”, cioè della fissazione di parametri di ricchezza culturale per poter accedere all’identità comune. Del resto, come misurarli con la precisione che invece consente l’economia e la finanza? Eppure sarebbe prezioso poter raffrontare e fissare soglie minime per alcuni dati come, ad esempio, il tasso di analfabetismo basilare o “di ritorno”, le percentuali di scolarità, la diffusione di giornali e periodici, l’esistenza e l’accessibilità di biblioteche pubbliche e private, il livello della produzione letteraria, teatrale o cinematografica, il rispetto del patrimonio culturale esistente e la promozione delle svariate forme di espressione artistica, la diffusione della conoscenza di altre lingue, il pluralismo e la libertà dei mezzi di comunicazione di massa…
Ma altrettanto importante mi pare il proseguire in un cammino felicemente imboccato, quello di “riscrivere” la storia, non certo per negare o falsificare l’accaduto, ma per capirlo insieme all’altro, per coglierlo anche nella sua faccia nascosta, per osservarlo da una diversa prospettiva, magari più scomoda o imbarazzante per noi. Infatti, come ha sapientemente osservato Franco Cardini, “l’unico modo di definire l’Europa nel suo divenire è, appunto, scriverne la storia”, una storia che non è quella di un’unica idea, di una tradizione monolitica ma, piuttosto, quella di un fecondo intrecciarsi di radici e tradizioni molteplici e in costante dialettica tra loro. Impresa non facile, certo, che tuttavia alcuni “pionieri” hanno risolutamente intrapreso: penso, per esempio, alla coraggiosa iniziativa promossa da cinque editori europei di lingua e nazionalità diversa – Beck di Monaco di Baviera, Blackwell di Oxford, Critica di Barcellona, Seuil di Parigi e la nostra Laterza – per la realizzazione di una comune collana storica intitolata “Fare l’Europa”, i cui volumi, affidati ai migliori specialisti, escono simultaneamente in cinque lingue e vengono poi ripresi in un’altra dozzina di idiomi parlati in Europa.
Recentemente è così apparso l’ottimoIl cielo sceso in terra.Le radici medievali dell’Europadi Jacques Le Goff che, in piena diatriba sul richiamo o meno della radici cristiane dell’Europa nella sua carta costituzionale, allarga la visione da un approccio religioso a uno temporale, andando a sondare, appunto, le radicimedievalidi quell’entità costantemente dinamica che è l’Europa. Lo storico francese è coscientemente memore della convinzione esposta da Lucien Febvre, con rara lungimiranza, al Collège de France nell’anno accademico 1944-45: “Per tutto il Medioevo (un Medioevo che dobbiamo prolungare molto avanti nell’età moderna) la potente azione del cristianesimo, facendo filtrare senza soste, attraverso le incerte frontiere di regni caleidoscopici, grandi correnti di valori cristiani indipendenti dal territorio, ha contribuito a dare agli occidentali una coscienza comune, oltre le frontiere che li separavano, una coscienza che, laicizzata a poco a poco, è diventata una coscienza europea”.
È una proposta di lettura che si riallaccia felicemente a quella di Cardini quando propone di considerare l’essenza profonda dell’Europa non partendo “dal punto di vista della definizione dei suoi confini”, per loro natura costantemente in movimento, “bensì da quella del suo centro propulsore” che non può identificarsi se non “nel vivo processo del crescere e del definirsi aperto della sua coscienza identitaria”. Rileggere così la storia, e farlo assieme al nemico di ieri, significa allora riconoscersi in una tradizione che non solo consente ma riconosce come proprie tradizioni diverse, a volte contrastanti, sempre in dialettica feconda. Del resto, non era forse re di uno stato al cuore dell’Europa continentale quello Stefano di Ungheria che ricordava ai suoi discendenti e ricorda ancora a noi oggi quanto sia “fragile un regno di un’unica lingua e un unico costume”?
Sì, l’Europa sta arricchendo la sua unità plurale, ritrova una parte di se stessa per troppo tempo alienata. Una quindicina d’anni fa è crollato un muro e si è liquefatta una cortina, ora l’ingresso, tra gli altri, di paesi come Malta e Cipro nell’Unione Europea ha riportato al largo, al cuore del Mediterraneo, il limite dello spazio percepito come “nostro”, l’insistente bussare della Turchia e significativi flussi migratori fanno percepire come neppure la religione possa costituire una frattura insuperabile o un confine certo. L’orizzonte europeo si dilata verso est, verso la millenaria frontiera più volte traumaticamente varcata in un senso e nell’altro, e verso sud, verso quel Mediterraneo in cui nascono i miti fondatori della nostra civiltà (si pensi al ratto di Europa – figlia di un re fenicio e il cui nome significa “ponente”, al pellegrinare di Ulisse o al “limite estremo” delle Colonne d’Ercole) e la Bibbia, codice nascosto del nostro universo di pensiero, anche laico.
Tutti insieme, dobbiamo allora avere il coraggio di rivisitare il nostro passato per riconoscerlo comune, di immaginare frontiere più ampie di quelle geo-politiche, di spingere lo sguardo verso un oltre che non è del tutto ignoto perché si nutre anche della memoria di quanto ci ha preceduto e che possiamo ritrovare come un amico fedele, rimasto ad aspettarci al di là del muro del nostro oblio.
Enzo Bianchi