25 marzo 2004
Siamo al cuore della quaresima, un tempo liturgico “forte” che ogni anno ricorda ai cristiani l’esigenza evangelica della conversione e ridà slancio al cammino verso la Pasqua di risurrezione, festa fondante la loro fede. Quaranta giorni che però hanno progressivamente smarrito la loro incidenza nella vita quotidiana delle nostre società e nella stessa condotta di molti cristiani: rinunce, ascesi, penitenza, veglia, digiuno e astinenza sono vocaboli divenuti rari e il “vissuto” che indicano è declinato sempre più al passato, come disciplina di un tempo che fu.
Eppure, i cristiani dovrebbero ritrovare l’audacia di una pratica profetica della quaresima, capace di narrare con comportamenti visibili e gesti concreti la speranza che abita il cuore dei credenti. Non si tratta di tornare a vivere “osservanze” desuete, ma di compiere alcune scelte portatrici non solo di alimento spirituale della vita cristiana ma anche di una maggior qualità di vita umana e di convivenza sociale, e di farlo mossi da un fine che determina modalità e orientamenti. Sì, avere un tempo preciso, una cadenzata sequenza di giorni nei quali il pensiero ritorna frequentemente all’essenziale della propria fede – il mistero pasquale, la morte e risurrezione di Gesù Cristo – aiuta a “pensare”, cioè accogliere dentro di sé eventi e persone che ci circondano, a rielaborare sentimenti, nozioni, informazioni, gioie e sofferenze. E di ritrovare questa capacità di riflettere abbiamo bisogno tutti, indipendentemente dal dato di fede: chi, infatti, può dire di riuscire a vivere una vita degna di tale nome senza interrogarsi su ciò che per lui è prioritario, su quali affetti lo abitano, su quali valori ritiene imprescindibili, su quali limiti lo condizionano, su quali compromessi è disposto ad accettare? Pensare significa prendere in mano la propria esistenza, non “lasciarsi vivere” trascinati dall’abitudine o dai condizionamenti esterni, oggi sempre più forti in una società che ha reso evanescenti tempi e luoghi in cui si assumono decisioni e responsabilità.
Ora, a questo “pensare” non può che giovare una pratica tradizionale della quaresima cristiana: il digiuno. Certo, sappiamo bene che oggi pochi credono ancora che il rapporto con il cibo sia un luogo di esperienza spirituale: il digiuno sembra cosa d’altri tempi e di altri luoghi in cui, paradossalmente, la fame è esperienza quotidiana per la maggioranza della gente. Se mai, ed è un altro paradosso, si è disposti ad astenersi dal cibo in altre forme, dando nomi più moderni a questa pratica: abbiamo allora chi rinuncia a determinati cibi per ragioni dietetiche, per motivi estetici, per scopi sportivi. Altre volte il digiuno riappare come forma di lotta e di protesta, sotto il nome oggi più spendibile di “sciopero della fame”: vi è allora un ostentato rifiuto del cibo, un gesto che deve “apparire”, essere notato e messo in risalto dai mass media, pena il fallimento dello scopo prefissato; una forma di digiuno, questa, che è l’esatto contrario del digiuno cristiano che dovrebbe avvenire nel segreto, all’insaputa di tutti (cf. Mt 6,16).
Nessuno, d’altro canto, ignora che il cibo trascina con sé una potente dimensione affettiva: anoressia e bulimia sono ripercussioni sull’alimentazione di gravi turbamenti affettivi. Ora, il digiuno ridà all’oralità quella disciplina che la fa passare dal consumo al ringraziamento e dalla voracità alla comunione, aiutandoci a conoscere da cosa siamo abitati: chi prova a digiunare scopre quanto potente sia in lui l’istinto alla collera, al cattivo umore, all’egoismo… Può ritrarsi spaventato di fronte a lati così oscuri e ignorati del proprio essere, ma può anche accettare di farvi fronte e di porsi le domande essenziali: “Chi sono io? Quali sono i miei reali desideri? Cosa mi tocca in profondità? Cosa mi lascia insoddisfatto e cosa, invece, mi dà pace?”. E se viviamo con serietà la dimensione corporea del digiuno, potremo sperimentarne anche un aspetto metaforico ma non meno concreto: digiuno è anche “astinenza”, saper fare a meno di qualcosa che normalmente ci nutre per capire cosa assimiliamo da questo “alimento”.
Allora la quaresima può divenire per tutti, credenti e non credenti, il tempo propizio per astenerci dal troppo parlare a favore di un maggiore ascolto attraverso la pratica del silenzio, un tempo per rinunciare all’overdose di televisione e di informazioni e privilegiare la lettura fatta per piacere e la formazione interiore, un tempo per ridurre contatti superficiali e interessati e coltivare il ritrovarsi con amici e persone care nella gratuità e lo stupore dell’incontro. Sì, le nostre società occidentali trasudano oggi messaggi che chiedono “di tutto, di più e subito”, modelli tesi a quella voracità che chiamiamo consumismo, in cui predomina un egoismo che non riconosce l’altro né, tantomeno, gli ultimi e i bisognosi. Non si tratta di demonizzare la televisione, ma certo un tempo di “digiuno televisivo” può essere uno strumento di difesa contro l’omologazione dilagante, uno stimolo a ridestare la nostra istanza critica che sola può proteggerci dal bombardamento di pubblicità più o meno occulte e ridarci un’autonomia di giudizio.
Tante realtà che viviamo quotidianamente, infatti, non sono negative in sé, anzi, sovente sono addirittura indispensabili – come del resto il cibo è indispensabile per vivere – ma, assolutizzate, rischiano di togliere lucidità al nostro sguardo e trasparenza al nostro comportamento. Ridimensionarle, ripensarle in una dimensione più completa, ricollocarle nella loro relatività è operazione faticosa ma liberante: è la fatica di chi non accetta di restare schiavo delle proprie abitudini. Sì, la quaresima è davvero un tempo fondamentale per una vita cristiana autentica, ma è anche un’opportunità preziosa offerta a ogni uomo, sia egli credente o no, per riscoprire che nessuno vive di solo pane e che la sete che abita il cuore umano non si accontenta di surrogati.
Enzo Bianchi