Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

La forza del perdono

27/01/2004 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2004,

La forza del perdono

La Stampa

quotidiano3lastampa-svg-1606905316.png

27 gennaio 2004

“Memoria”, nonostante le ferree regole dell’analisi grammaticale, è un sostantivo concreto, e il verbo che più gli si addice non è l’aulico “commemorare”, né l’ormai tecnico “memorizzare”, e nemmeno il pur significativo ausiliare “avere”, bensì il servile, quotidiano, materiale “fare”. Sì, l’essere umano è capace di “fare memoria”, che significa non solo custodire, ma anche rielaborare un ricordo, trasformarlo in principio e fondamento dell’agire, in motivazione etica: memoria non è solo conservazione, ma è sempre anche costruzione. È grazie all’aver visto e vissuto determinate cose, all’averle consapevolmente assunte come parte del nostro patrimonio culturale interiore, al saperle riattualizzare narrandole a chi non le aveva conosciute, che saremo determinati a comportarci in un modo piuttosto che in un altro, a cercare di ripetere un’esperienza che la nostra memoria giudica positiva e a rifuggire una realtà il cui ricordo ci fa esclamare “mai più”.

 

Al cuore dell’ebraismo e del cristianesimo è presente, come in nessun altra tradizione religiosa e culturale, questo mandato di ricordare: “Ricordati di ricordare!” sta scritto nella torahe viene ripetuto come un adagio; “Fate memoria” è il comando lasciato da Gesù ai suoi… L’esercizio della memoria non è dunque qualcosa di periferico bensì di essenziale perché solo da una trasmissione di memoria si rintracciano le radici della propria storia individuale e collettiva, solo conservando la memoria ci si colloca nella storia con consapevolezza, solo nel rinnovamento dela memoria si accresce la propria responsabilità. La mia generazione sa che fare memoria subito dopo la shoahera quasi impossibile: un angoscioso pudore impediva a molti di parlarne, quasi che occorresse prima assumere dolorosamente l’evento e portarlo nel silenzio. Oggi ci si impegna a ricordare il male assoluto fattosi evento nella storia, e lo si fa affinché “quanto è accaduto non succeda più”, il che equivale a dire: “per non dimenticare”.

 

E questo “fare memoria”, preludio e sottofondo indispensabile per un’etica nell’azione, è compito di ogni giorno e di ciascuno, eppure, proprio per questo ha anche bisogno di essere ravvivato da richiami forti come “giornate” particolari, ricorrenze, anniversari, celebrazioni che lo aiutino a combattere alcune minacce costantemente presenti. L’oblio, innanzitutto, che non è solo il lento scivolare degli eventi in una zona sempre più marginale dei nostri pensieri, ma è anche il torpore dell’assuefazione, l’allontanarsi di un evento nel tempo che ne sfuma i contorni, ne banalizza l’eccezionalità, ne spegne la scandalosa intollerabilità. Altra minaccia per una memoria “purificata” – minaccia che purtroppo abbiamo visto e vediamo sovente all’opera in questi anni, nell’ex-Jugoslavia come in Medioriente, in Irlanda come nella regione dei Grandi Laghi – è quello che potremmo chiamare “ricordo tribale”, delineato dallo scrittore irlandese Joseph O’Connor con un efficace neologismo: “Fiannalandia (“fianna” in gaelico indica la “tribù”) è un luogo dove fatti accaduti secoli fa vengono discussi con l’asprezza abrasiva di un dolore appena inferto, dove sciagure toccate ad altri vengono raccontate come se le vittime fossimo state noi, dove comportamenti che mostrino la più infinitesimale comprensione per un vicino sono impossibili, se casualmente quello non appartiene alla tua tribù: ma la comunione con i compagni di tribù di mezzo millennio fa è profonda quanto lo è quella con la propria famiglia”. Un luogo, conclude amaramente O’Connor, “dove ricordare, in realtà, è una forma di oblio”. Si tratta allora di “purificare la memoria” da questo ricordo tribale che è oblio, operazione tra le più difficili perché non la si può compiere né da soli né unilateralmente, bensì in un comune sforzo di comprensione dell’altro e delle sue sofferenze. Del resto, come ci ricorda Elie Wiesel, “l’uomo è definito dalla sua memoria individuale, legata alla memoria collettiva: memoria e identità si alimentano reciprocamente”.

 

Ora, credo che questa autentica memoria, individuale e collettiva insieme, possa acquisire spessore e qualità dalla presenza di un elemento che troppo spesso confiniamo nella sfera intangibile del personale: il perdono. Certo, nessuno può perdonare o invocare il perdono a nome di un altro, nessuno può sostituirsi alle vittime né frapporsi a posteriori tra loro e i carnefici, così come nessuno può “esigere” da un altro questo moto interiore. Eppure, proprio perché nella shoaha essere offesa, brutalizzata, massacrata, annientata è stata l’umanità intera, incarnata in quei milioni di ebrei, di oppositori, di zingari, di omosessuali, di handicappati, dobbiamo trovare una forza interiore collettiva capace di gridare la fraternità umana più forte dell’odio, la vita più forte della morte; proprio perché è l’essere umano che è stato umiliato nella viltà di chi non ha visto, non ha sentito, non ha parlato, dobbiamo insieme ridare voce all’istanza dell’uomo che si sente custode dell’altro uomo; proprio perché è l’umanità che è stata contraddetta fino all’annientamento anche nei gesti dei carnefici e degli aguzzini, non possiamo compiacerci nel ripagare con la stessa moneta chi ha trascinato nell’abisso bestiale il genere umano. Immettere l’istanza del perdono nel nostro fare memoria non significa porre sullo stesso piano vittima e carnefice, non significa illudersi che il malvagio si commuova di fronte alla mitezza del giusto, non significa ammantare ogni orrore di stucchevole buonismo, bensì affermare, con la forza interiore che una convivenza civile degna di questo nome deve sapersi dare, che nessun uomo può essere ridotto esaustivamente alle atrocità che ha compiuto, ribadire che ciascuno resta più grande del male commesso, anche quando questo è percepito come “assoluto”. Impresa forse impossibile al singolo individuo – salva l’eccezionalità di rari “eroi” che non può essere richiesta a tutti – ma impresa di fronte alla quale l’umanità nel suo insieme non può indietreggiare.

Capiamo allora perché sia importante che nel “fare memoria” dellashoahe, con essa e attraverso di essa, di tutte le “catastrofi” che l’umanità ha vissuto nella carne di milioni di suoi figli nella storia, non ci fermiamo solo a ricordare lo scempio immane commesso, manteniamo desta anche la memoria e la gratitudine verso coloro che a queste catastrofi hanno opposto resistenza, gocce di balsamo in un mare di atrocità: centinaia, migliaia di uomini e donne di ogni razza, religione e popolo che hanno saputo e voluto agire da “giusti”, rispondendo a un’esigenza della loro fede, alle loro convinzioni più profonde o alla loro coscienza, sovente in una disarmata “banalità del bene”, accettando liberamente di correre il rischio e sovente di pagare il prezzo della loro stessa vita. Nel giorno della memoria non possiamo dimenticare nessuno di questi morti perché, come ricorda ancora Wiesel, “dimenticare i morti significa ucciderli una seconda volta, negare la vita che hanno vissuto, la speranza che li sosteneva, la fede che li animava”. Sì, dimenticare significa uccidere assieme al passato anche il futuro che esso conteneva, significa mortificare il nostro presente privandolo di ogni sbocco futuro, significa nutrirsi di menzogna e negarsi ogni possibilità di giungere alla verità, perché senza la memoria la verità stessa diventa maschera, finzione, menzogna. Fare memoria, allora, è ridare agli altri, vivi o morti, e ridare a noi stessi quella dignità cui ogni essere umano ha diritto per il semplice fatto di essere apparso sulla scena di questo mondo: se memoria è consapevolezza di ciò che è stato trasmesso, essa sarà sempre proporzionale alla carità che uno ha saputo e sa manifestare.

 

Enzo Bianchi