30 agosto 2003
Da quattordici secoli accanto ai cristiani c’è una presenza che ha rappresentato, al suo apparire ai confini della cristianità, un’alterità religiosa teologicamente enigmatica, un nemico da temere più di tutti gli altri e perciò da combattere quando appare minaccioso, ma anche un avversario con il quale intrattenere buoni rapporti e avviare scambi economici intensi: l’islam.
Se i cristiani, dopo il grande scisma consumatosi in seno al giudaismo con i primi seguaci di Gesù e sancito dalla scomunica impartita dalla sinagoga aiminim, gli eretici discepoli di Gesù, hanno poco per volta saputo giustificare la permanenza di Israele nella storia con la teologia dell’indurimento del cuore, del ripudio del Messia loro promesso e inviato da Dio, non hanno trovato e non trovano neppure oggi le ragioni teologiche della presenza dell’islam, questa fede nel Dio degli ebrei e dei cristiani, il Dio di Abramo, padre di tutti i credenti monoteisti, questa profezia rinnovata, ripresa e compiuta da Maometto sei secoli dopo che la “parola di Dio” era diventata carne in Gesù; una fede che, tra l’altro, obbliga i cristiani a confrontarsi con una interpretazione “altra” di Gesù, venerato e addirittura atteso come Messia per la fine dei tempi! Proprio per questo le spiegazioni che sembravano più plausibili ai padri – da Giovanni Damasceno a Pietro il Venerabile – definivano l’islam come “eresia cristiana”.
Certo, quella fede predicata da Maometto all’inizio del settimo secolo ha compiuto una corsa straordinaria, dilatandosi fino al Marocco e alla Spagna in occidente, fino ai Balcani a settentrione e fino alle Filippine a oriente. E il cristianesimo è stato non solo testimone ma anche “vittima” di questa espansione, perdendo le terre cristiane per eccellenza, le terre dei padri: la Palestina, la Siria, l’Egitto e l’Africa settentrionale, la Cappadocia, fino a conoscere una forte concorrenza missionaria nei paesi dell’Africa subsahariana e del sud-est asiatico.
Ma quello tra cristianesimo e islam è un confronto che ha conosciuto anche periodi estremamente positivi: pochi sanno che ci sono state epoche in cui la conversione di cristiani all’islam avveniva senza imposizione violenta e che a volte era addirittura vissuta come una liberazione del giogo imperiale bizantino, così come nell’Andalusia del mille, cristiani, musulmani ed ebrei non solo convivevano in pace, ma sapevano dialogare in modo fecondo incrociando le rispettive conoscenze filosofiche e scientifiche.
Altre volte, invece, il confronto degenera e sfocia in violenze, come al tempo delle crociate e soprattutto nel XVI secolo, quando l’intero occidente cristiano percepisce l’islam come “il” nemico che lo insidia nelle proprie terre e reagisce con la guerra sigillata dall’epica battaglia di Lepanto. Così il “saraceno”, e successivamente il “turco”, sono divenuti oggetto di predicazioni “contro” che hanno favorito la nascita di un linguaggio ostile e hanno alimentato una memoria di diffidenza e paura. Gli ortodossi bizantini ancora oggi percepiscono l’islam come il giogo oppressivo (la “turcocrazia”) che li ha costretti alla cattività e all’isolamento rispetto all’occidente; gli ortodossi russi a lungo hanno colto nell’islam il nemico orientale per eccellenza; i cristiani orientali si sono adeguati alla loro condizione di minoranza tollerata e protetta, che pur ha conosciuto momenti molto duri; per la chiesa di Roma l’islam è rimasto a lungo un nemico lontano, ma anche un agguerrito concorrente nella missione.
Oggi i cristiani desiderano e perseguono un dialogo che vede impegnata con convinzione anche la chiesa cattolica e in primo luogo Giovanni Paolo II: proprio sull’islam il papa ha avuto un ruolo di innovatore, esprimendosi più volte in termini di fraternità, di vicinanza e di stima per i credenti in Allah, fino all’eloquente gesto di andare a pregare in una loro moschea a Damasco. Si può dire che oggi i cattolici sono sinceramente impegnati in questo dialogo e confronto con l’islam: pochi, anche se rumorosi e comunque dissenzienti dal cammino maestro della chiesa tracciato dal papa, quelli che auspicano o tentano un’offensiva aggressiva, proiettando sull’islam la tipologia del Nemico di cui hanno psicologicamente bisogno per rinsaldare la propria incerta identità in una stagione che ha visto il crollo della grande ideologia atea contrapposta alla fede cristiana. Sì, purtroppo alcune volte si levano voci che tentano di criminalizzare la religione islamica, denunciandone l’etica diversa, le regole alimentari differenti, la diversità del giorno festivo o della concezione della donna, come se queste differenze fossero di per sé delitti e non l’occasione di un fecondo confronto. Proprio in virtù dei valori della tolleranza e della convivenza civile, sviluppatisi nei secoli in occidente a volte anche in contrasto con l’atteggiamento della chiesa, non dovremmo mai dimenticare che nelle nostre democrazie non ci sono religioni privilegiate e che nella polis tutte devono poter trovare lo stesso riconoscimento, godere degli stessi diritti, assumere le stesse responsabilità e gli stessi doveri verso lo stato e la società.
Dopo l’“orrore assoluto” dell’11 settembre 2001 va crescendo in tutto l’occidente una islamofobia prima latente mentre, a causa del tipo di risposta scelto dagli Stati Uniti, i popoli musulmani e quelli arabi in particolare nutrono un antiamericanismo sempre crescente che a volte diventa inimicizia nei confronti dell’intero occidente. No, occorre rifiutare lo “scontro di civiltà” previsto da Huntington, occorre andare oltre lo “scontro dell’ignoranza reciproca” evocato da Edward Said e praticare un dialogo capace di instaurare un forte rispetto gli uni verso gli altri, per giungere addirittura, come chiede anche il Corano, a “rivaleggiare nel bene” (Sura V,48) tra credenti nel Dio unico. Oggi che i nostri paesi di antica cristianità vedono la presenza islamica sempre più quotidiana, anche se ancora fortemente minoritaria, sapremo insieme, cristiani e musulmani – a nostra volta minoranza in una società secolarizzata – inventare nuove vie di dialogo per un mondo più abitabile, un mondo in cui le istanze interiori e il riferimento etico a una verità rivelata non siano ostacolo ma, al contrario, strumento per un’autentica fratellanza universale?
Il dialogo con l’islam è un’occasione offerta a cristiani, credenti di altre religioni e non credenti, per edificare una società contrassegnata da un senso della fraternità universale, da un rispetto dei diritti umani e da una volontà di pace. Alcuni interrogativi preliminari si impongono, rivolti a tutti coloro che ritengono prezioso il bene della pacifica convivenza civile nel rispetto delle alterità. Innanzitutto, è in atto in alcuni paesi un conflitto che va letto e riconosciuto per quello che è: una persecuzione dei cristiani da parte dei musulmani. Persecuzione diversa nelle forme, non sempre riducibili alla sola dimensione religiosa, ma certamente dovuta al frizionamento tipico delle faglie etno-confessionali. Nel Sudan i cristiani subiscono una islamizzazione forzata, condotta da fondamentalisti islamici e benedetta dal governo, che ha prodotto anche numerose vittime tra i cristiani del sud, in particolare tra gli anglicani. In Alto Egitto gruppi di integralisti più o meno marginali continuano da due decenni a vessare villaggi cristiani copti, assaltandoli, bruciando abitazioni o raccolti e, in alcuni casi non rari, giungendo a massacrare monaci, preti, catechisti o semplici fedeli. In Nigeria, l’imposizione della shariacausa sovente violenti scontri le cui vittime principali sono i cristiani, di diverse confessioni. In Pakistan un’interpretazione scellerata delle norme contro la bestemmia permette a chiunque di accusare di tale delitto qualsiasi cristiano: l’oppressione fisica, psicologica e sociale è tale che negli scorsi anni il vescovo cattolico di Islamabad ha deciso di protestare con il gesto estremo del suicidio. Si potrebbe ancora ricordare la situazione nelle Molucche, in Indonesia, in certe regioni delle Filippine, o ancora l’impossibilità per i cristiani di essere visibilmente presenti in Arabia Saudita.
Ebbene, questa realtà di persecuzione richiede di essere riconosciuta e condannata, a cominciare dai musulmani che sono in Europa e che dovrebbero – proprio in virtù della loro condizione inedita di minoranza rispettata in stati di cui riconoscono la legittimità e la legalità del diritto – saper elaborare, anche in una situazione di dispersione e mondializzazione, la possibilità di restare in comunione con laUmmà musulmana, pur vivendo l’islam in un occidente non islamico. “L’islam dei musulmani di oggi – ha osservato Olivier Roy, uno dei più acuti islamologi contemporanei – non è un’isola culturale, è un fenomeno globale che subisce la globalizzazione e ne partecipa: secolarizzazione e ritorno alla religione, neofondamentalismo e globalizzazione, perdita dell’evidenza religiosa ed emergenza di una religione”. Allora, saper condannare le persecuzioni inflitte da musulmani ad altri credenti nel mondo, affermare la propria lealtà alla legalità degli stati in cui si vive è il primo passo per mostrare la volontà di un dialogo e di una convivenza tra culture diverse.
Altri interrogativi sorgono, e uno in particolare condiziona tutti gli altri. L’islam può usare la critica storica e le scienze esegetiche nei confronti dello “sta scritto” del Corano e della sua tradizione? I musulmani credono che il testo del Corano è rivelato, “increato” e per questo scritto nella lingua sacra, la lingua chiara e evidente, ma potranno leggerlo, come noi occidentali abbiamo imparato a fare con la Bibbia, con tutti i metodi forniti dalle scienze umane? Questo sarebbe certamente un antidoto alla lettura fondamentalista di cui si nutrono tutti gli integralisti, di qualunque religione. Il neofondamentalismo, infatti, è ossessionato dal ritorno al “vero” islam e vuole forgiare l’identità musulmana attraverso un codice omogeneo e applicabile in ogni contesto geografico, politico e sociale: ne risulta però un islam astratto, una Ummàimmaginaria, un universalismo dai tratti mai conosciuti dall’islam. “Il neofondamentalismo – osserva ancora Roy – vorrebbe che un musulmano potesse dichiarare: ‘Io non sono arabo, non sono francese, non sono pakistano: sono musulmano!’, ma questo appare impossibile”.
Una questione derivata dalla precedente è quella di sapere se sia possibile il riconoscimento di una laicità dello stato rispetto alla religione islamica e dunque rispetto alle diverse religioni. Questione determinante, almeno in Europa, dove i cristiani ormai non solo accettano, ma sono impegnati nel riconoscimento di una laicità non ideologica dello stato. In ambito cristiano, Cesare e Dio sono distinti e non saperli distinguere finendo per identificarli significa rompere uno dei fondamenti della presenza cristiana nel mondo. In verità l’islam ha affrontato da tempo questo problema, senza tuttavia risolverlo: globalmente la religione è sottomessa alla politica fin dalla dinastia degli Omayyadi tra VII e VIII secolo, ma la politicizzazione dell’islam più recente porta di fatto a una deriva islamista in cui gli stessi poteri politici, poco rispettosi delle regole dell’islam, sono denunciati e osteggiati come infedeli e prevaricatori, soprattutto quando la modernizzazione secolarizzante sembra minacciare la tradizionale identità della comunità musulmana e del singolo fedele. Da lì nascono slogan estremamente efficaci, come “Il Corano è la nostra costituzione!”, ma nella realtà dei fatti una simile estensione politica dellaUmmà, della comunità dei credenti è un’utopia.
Infine, un ultimo interrogativo circa i rapporti tra musulmani e cristiani. Nel Corano questi ultimi appaiono qua e là come “i più vicini nell’amicizia ai credenti musulmani”, e tra di loro il testo sacro dell’islam manifesta grande simpatia per i monaci “che non si gonfiano d’orgoglio” (SuraV,82) e per i monasteri “in cui i monaci celebrano le lodi a Dio all’alba e al tramonto” (SuraXXVI,36). Tuttavia, accanto a questi versetti che incoraggiano al rispetto affettuoso, vi sono altre esortazioni del Profeta che paiono intrise di inimicizia verso cristiani ed ebrei: “Credenti (musulmani), non abbiate mai come alleati ebrei e cristiani” (SuraV,51), “combattete quelli che tra le genti del Libro non praticano la vera religione, fino a far loro pagare un tributo e a umiliarli” (SuraIX,29). Come rileggere oggi questi versetti e come interpretarli in vista di un “vivere insieme”? Dice infatti il Corano: “Se Dio l’avesse voluto, avrebbe fatto di voi (credenti monoteisti) una sola comunità; ma non lo ha fatto, per provarvi attraverso il dono che vi ha elargito. Rivaleggiate dunque nelle buone azioni!” (SuraV,48). La regola generale lasciata dal Profeta è: “nessuna costrizione in religione, perché la buona via si distingue dall’errore. Vuoi tu costringere gli uomini a essere credenti se nessuno può credere senza il permesso di Dio?”. Se violenza e intolleranza dipendono dall’interpretazione del Corano, c’è un modo per bandirle definitivamente?
Da parte nostra, per scacciare i fantasmi, liberarci dagli stereotipi, rifuggire da ogni inimicizia verso l’altro, lo sconosciuto misconosciuto, dobbiamo imparare che i musulmani non vanno ridotti alla loro sola dimensione religiosa, che sono un miliardo di persone nei due emisferi, non tutti credenti e praticanti, più orientali (oltre ai turchi: pakistani, afgani, indonesiani, filippini…) che non arabi. C’è un islam, ma i musulmani sono molti e diversi nel loro modo di esprimere la fede e nella varietà etnica e geografica: musulmani ultramoderni esistono accanto a credenti più tradizionalisti e ad altri indifferenti alla religione, accanto anche a fondamentalisti e a frange di fanatici terroristi, che prolificano soprattutto nell’humus dell’oppressione, nel misconoscimento della loro dignità e dei loro diritti. Questi ultimi, per uscire da una situazione vista come un’eterna prigione senza sbocco, sono pronti anche ad atti di terrorismo che noi giustamente condanniamo con forza, ma di cui non possiamo non ricercare l’origine e la dinamica.
Questo è l’enorme spazio, la grande sfida che si apre davanti al dialogo: evitare di leggere le differenze anche profonde come scontro tra il bene e il male, rifuggire l’identificazione tra un islam astratto e l’incarnazione del male, rifiutarsi di demonizzare l’altro. Siamo convinti che la stragrande maggioranza dei musulmani, credenti o no, sia profondamente a disagio di fronte agli appelli alla barbarie che giungono dal fondamentalismo e sia disposta ad assumersi nella propria realtà concreta la responsabilità di testimoniare il rifiuto dell’islam a qualsiasi solidarietà con la barbarie. In questa faticosa lotta sappiano di avere al loro fianco i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà.
Enzo Bianchi