2 agosto 2003
I cristiani hanno una parola da dire “in quanto cristiani” sull’Europa? La risposta non può che essere positiva: essi sono cittadini dellapoliseuropea e, come tali, partecipano alla storia di questo continente senza esenzioni né evasioni. La “nuova” Europa diventa una sfida anche per i cristiani che nell’attuale congiuntura devono portare il loro contributo specifico alla configurazione di questa entità.
Ma i cristiani hanno anche una “parola cristiana” da dire sull’Europa? Qui la risposta si fa più difficile. L’Europa, infatti, non è un articolo di fede, né un principio strutturale della chiesa e la sua stessa unione è un progetto che non sarà esente dalla tentazione di Babele: il progetto Europa interessa i cittadini cristiani, ma l’Europa non è, né può essere, la Gerusalemme celeste che scende dall’alto, e non è neppure il popolo di Dio! Occorre molta vigilanza per evitare enfasi e ambiguità: il progetto Europa abbisogna del contributo cristiano, ma su di esso i cristiani non devono fare proiezioni teologiche. I cristiani, inoltre, non possono dimenticare che ogni tentativo di unificazione di popoli diversi è sì positivo, ma a condizione che non si realizzi “contro” altri popoli o altre aree del mondo, che si spengano i nazionalismi e non si inneschi la miscela esplosiva di religione e patria! Sarebbe non solo politicamente e socialmente disastroso, ma radicalmente antievangelico. Sì, a volte ho purtroppo l’impressione che alcune voci che invocano un’Europa unita non tengano presente con chiarezza lo “statuto” cristiano in questo mondo e finiscano per progettare una nuova cristianità europea capace di coniugare potenze economiche, politiche e culturali con la religione. Si vuole davvero un’Europa senza un’ideologia eurocentrica, uno spazio di pace, di confronto e di dialogo tra le diverse culture, rinunciando a ogni tipo di egemonia, oppure si vuole altro?
In Europa i cristiani sono presenti da due millenni, hanno contribuito alla creazione di una civiltà plurale, hanno fornito l’etica e, ancora nell’epoca moderna, hanno di fatto impregnato la cultura, la storia e le istituzioni di questo continente. Ci sono alcuni contributi fondamentali che il cristianesimo ha fornito e che l’Europa, oggi in crisi di valori, avrebbe interesse a riconoscere e recuperare: l’affermazione della dignità della persona umana, la centralità della ragione, la solidarietà sociale, la comunità… Ma oggi, i cristiani hanno ancora qualcosa di specifico da dare?
Mi pare sia di non poca importanza il fatto che oggi i cristiani di ogni chiesa condividano la convinzione della necessaria distinzione tra religione e politica. Finita la cristianità, i cristiani si sono scoperti minoranza o, comunque, non più soli nella società europea e hanno imparato dalla storia che la fede cristiana non può identificarsi con l’ordine politico. I cristiani oggi non vogliono uno stato confessionale cristiano, ma ambiscono a uno stato segnato da “una giusta laicità” (l’espressione è di Giovanni Paolo II nel febbraio di quest’anno), in cui tutti i cittadini possano sentirsi rappresentati, a qualunque fede, etica e cultura appartengano. Certo, questa “giusta” laicità non è laicismo ideologico né esclusivista, ma è fatta di rispetto o di neutralità positiva. Proprio per questo, da parte loro i cristiani vigileranno affinché al loro interno non prevalgano quelle tendenze integraliste, fondamentaliste e settarie presenti ed efficaci nelle diverse chiese in questi ultimi decenni. I cristiani oggi considerano la laicità come un’opportunità e di fatto già ne traggono dei benefici, anche se, prigionieri di nostalgie del passato, non sempre tutti ne sono coscienti: non è forse la laicità che permette ai cristiani di essere presenti senza arroganza ma senza complessi di inferiorità nell’agorà della cultura, nel confronto etico, nelle iniziative di solidarietà?
Si tratta, in un certo senso, di un aiuto a riscoprire il profondo legame e, al contempo, la chiara distinzione tra la fede cristiana e l’impegno nella polis: la fede in Gesù Cristo non è evasiva ma si colloca nella storia, ispira l’agire dei credenti ma non genera messianismi mondani o utopie ideologiche. Un documento anonimo cristiano del II secolo d.C. – la letteraA Diogneto– indica con una chiarezza e attualità rare come i cristiani “vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano alla vita pubblica come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri; ogni nazione straniera è patria loro, e ogni patria è straniera…”. Consapevoli che la loro vita rappresenta per molti aspetti una differenza – la differenza cristiana, appunto – e che per questo possono diventare segno di contraddizione per la società, i cristiani mostreranno un “comportamento bello” – secondo l’espressione dell’apostolo Pietro – in mezzo ai non cristiani, mostreranno che la “differenza cristiana” deriva dal lasciarsi ispirare dal vangelo di Gesù Cristo e testimonieranno così, senza proselitismi, la loro speranza. La loro presenza nella società sarà allora “compagnia”, il loro rapporto con gli altri “sympatheia”, la loro dimora sulla terra una convivenza serena. I cristiani, proprio perché attendono il regno e la venuta del loro Signore, guardano al futuro con speranza e vogliono continuare a dire, meglio, a essere una “buona notizia”, un “evangelo”, come il loro Signore ha chiesto ai suoi discepoli.
Così i cristiani cercheranno di aprire cammini assieme agli altri uomini, con loro si sforzeranno di edificare la polis senza titoli di privilegio, senza ricette infallibili, senza pretese di egemonia. Il vangelo, infatti, ispira i loro progetti ma non ne detta la forma di realizzazione, da ricercarsi assieme agli altri cittadini non cristiani. Nessun fondamentalismo, quindi, né tantomeno integralismo – sempre figli dell’angoscia di salvezza e di dominio – devono inficiare l’attiva presenza dei cristiani nella società. Essere cristiani significherà allora impegno a servizio della comunità politica, indicazione di vie per l’Europa caratterizzate da orientamenti etici quali la giustizia, la partecipazione di tutti al benessere, la pace e la convivenza come qualità della vita. Allora l’Unione europea non sarà un “bene” esclusivo per i propri cittadini, bensì estensibile a tutti gli altri paesi del mondo.
Ma esiste anche un altro contributo che i cristiani dovrebbero dare per essere veramente fedeli al vangelo e autenticamente “profetici”: la ricerca dell’unità. Unità dei cristiani, innanzitutto: se i discepoli di Gesù Cristo continuano a essere divisi, a opporsi tra loro, se non riescono nemmeno a incontrarsi per discutere i motivi di dissenso (come avviene invece addirittura tra schieramenti politicamente opposti o tra governi ostili), se di fatto con il loro proselitismo fomentano il “mercato delle fedi”, allora il loro stesso agire per il progresso della fede risulterà depotenziato e la loro eventuale e occasionale alleanza su singoli aspetti della normativa europea sarà letta dai non cristiani come unione strategica, come lobby volta ad acquisire peso e potere presso le istituzioni politiche. Tra le chiese occorre che l’ecumenismo, formalmente dichiarato come impegno irrinunciabile, divenga un atteggiamento quotidiano che non consenta a una chiesa di avanzare senza l’altra o, peggio ancora, contro di essa: solo così si potrà predisporre tutto in vista di una comunione autentica e feconda. La chiese d’Europa hanno elaborato, discusso e approvato insieme una “carta ecumenica”, ma questa va realizzata giorno dopo giorno, con audacia, pazienza e tenacia.
Ma l’unità delle chiese deve essere perseguita anche come servizio all’unità dell’umanità: i cristiani devono collocare ogni processo di unità in una prospettiva universale, a servizio dell’intero genere umano. Un impegno per la concordia tra le genti e le culture va accompagnato dalla ricerca convinta della pace, dall’educazione alla convivenza pacifica delle nuove generazioni cristiane che non hanno conosciuto gli orrori della guerra, da uno sforzo a evitare qualsiasi scontro di civiltà e a volgere invece le tensioni in occasioni di confronto e di arricchimento reciproco. Allora si potrà andare verso una mondializzazione della solidarietà, una globalizzazione della giustizia e della pace. Solo così si potrà sempre di più pensare e progettare insieme la “governanza mondiale”, obiettivo per il quale un’Unione europea capace di umanesimo potrà dare il suo fondamentale contributo.
Enzo Bianchi