17 aprile 2003
Subito dopo l’11 settembre avevo interpretato quel tragico evento e le reazioni che aveva suscitato come “apocalissi”: un “alzare il velo” su ciò che è l’uomo, su quello che l’uomo vuole e quindi opera. Oggi mi sembra di poter dire che da quel giorno le apocalissi continuano in un crescendo nel quale appare sempre di più uno scontro in atto, ma non tra religioni diverse, né tra civiltà, bensì uno scontro all’interno del nostro stesso mondo occidentale tra chi cerca la civiltà, l’umanizzazione, la costruzione di unapolissegnata da giustizia e pace e chi invece persegue la propria volontà di dominio anche a costo di far ripiombare l’umanità nella barbarie. Sono emerse due prospettive opposte: da un lato quanti sono convinti che i conflitti si possono e si devono risolvere con negoziati, dialoghi ed elaborazione di nuove strategie non armate, dall’altra quanti sostengono che di fronte a una minaccia anche non immediata si debba usare la forza armata perché più efficace e diretta.
In questi giorni siamo in una sorta di sospensione artificiale del tempo: si vorrebbe poter dire che la guerra è finita e ci si affretta a ragionare in termini di “dopoguerra”, ma la stessa potenza che l’ha voluta come “preventiva” ci fa sapere che la guerra sarà lunga, “forse dieci o quindici anni” e ormai è passata a minacciare la Siria con le stesse accuse mosse a suo tempo all’Iraq. Ciononostante abbiamo già un motivo, e non da poco, per cui rallegrarci: la fine di Saddam, la caduta di un tiranno e del suo regime. Desideravamo con convinzione e forza questo giorno, come continuiamo a desiderarlo per amore dei popoli, di milioni di uomini e donne oppresse in molte altre nazioni del mondo. Tuttavia questa soddisfazione resta accompagnata da altri sentimenti, tutt’altro che gioiosi: innanzitutto la tristezza per il fatto che non si è saputo evitare questo conflitto, che non si sono volute percorrere vie alternative al conflitto armato, né si sono cercate e sperimentate strade inedite per giungere allo stesso risultato.
Alla tristezza si aggiunge il dolore nel vedere che per ora (e non sappiamo, appunto, per quanto) la caduta di Saddam non ha significato per la stessa società irachena la pace, né l’inizio di una stagione in cui l’oppressione sia svanita. Addolora chiunque abbia a cuore la pace e la civiltà sentir dire dal segretario alla difesa degli Stati Uniti che gli iracheni hanno ora “la libertà, quindi anche la libertà di commettere crimini e violenze”. Vedere corpi umani straziati, ospedali depredati, musei saccheggiati e biblioteche in fiamme contraddice ogni soddisfazione per aver visto cadere la statua di un tiranno sanguinario. Chi si è opposto alla guerra lo ha fatto pensando non solo ai morti che essa avrebbe direttamente provocato nello scontro tra eserciti, ma anche alle sue conseguenze contestuali (le vittime civili, incivilmente chiamate “danni collaterali”) e immediate: violenze, vendette, scatenamento di odio, rese dei conti, venuta meno di ogni legge ed epifania della barbarie che misconosce ogni memoria, ogni eredità storica e culturale, ogni acquisizione umanizzante espressa dall’arte e testimoniata dall’archeologia. La barbarie è tale perché non riconosce niente e nessuno, nemmeno il proprio simile, nemmeno il proprio passato.
Una statua è stata simbolicamente abbattuta, e con essa un ignobile potere dittatoriale, ma l’esultanza che ha accompagnato questo crollo non deve farci dimenticare che milioni di innocenti – che hanno pagato il prezzo più alto prima della guerra con l’embargo, che lo hanno pagato durante la guerra, che lo stanno pagando in questo tempo indeterminato di disordini senza legge, che rischiano di pagarlo se il loro paese verrà espropriato delle sue risorse – desiderano non vendetta ma pace, non rappresaglie e ritorsioni ma solo una vita quotidiana degna di questo nome, una vita di affetti e di lavoro, una vita in cui la giustizia, la libertà e la pace non siano costantemente conculcate.
Tristezza, dolore e anche amarezza colgono noi normali cittadini nell’osservare che una guerra come questa – che sembra raccontata ora per ora – resta piena di enigmi e non ci permette di capire in verità cosa e perché sia avvenuto. Sorgono domande foriere di nuove preoccupazioni: perché non c’è stato scontro tra gli eserciti? dove si è volatilizzato l’apparato del regime?
perché tanta premura nel conquistare e proteggere i pozzi di petrolio e altrettanta noncuranza verso i musei, le biblioteche, l’università; perché questo disprezzo verso il passato di un popolo e il futuro di un sapere? perché questa quotidiana altalena di notizie sul ritrovamento di armi di distruzione di massa smentite dalle stesse fonti nel giro di poche ore? In questa confusione, non è facile resistere alla tentazione di una visione cinica sull’uomo e sul suo destino, non è facile continuare a opporsi all’evidenza di una barbarie dilagante e di uno strepito che ribadisce con malcelato compiacimento che la storia va avanti con la forza, che la democrazia nell’islam la si deve imporre con la guerra.
Non sorprende allora che permanga salda e senza esitazioni la condanna di questa guerra espressa da tanti uomini e donne, condanna che ha trovato voce e completamento limpido e forte in Giovanni Paolo II e nell’azione lungimirante della Santa Sede. “Prima della guerra – ha affermato il cardinal Sodano – si è fatto tutto il possibile perché non scoppiasse; avviato il conflitto si è lavorato perché cessasse quanti prima” e ora la Santa Sede spera che le Nazioni Unite riprendano il ruolo politico conferito loro e che non ci sia estensione del conflitto “in obbedienza al concetto di nuovo ordine mondiale che permette il ricorso unilaterale alla forza da parte di alcuni stati, concetto estraneo al diritto internazionale”, come ha affermato mons. Tauran. È una posizione lucida e coerente, che chiede con insistenza che la forza della legge prevalga sulla legge della forza. Ad essa fanno eco le parole di un maestro della mia generazione, americano come tanti altri nostri maestri, Arthur Schlesinger jr.: “La guerra preventiva è un concetto pericoloso perché sostituisce l’impero americano all’ordine fondato sulle Nazioni Unite… Noi americani non ci siamo mai comportati in questo modo”.
Alcuni avrebbero voluto, dopo questa prima fase di guerra-lampo culminata con la caduta di Saddam, un cambiamento di giudizio da parte della Chiesa: ma una guerra non diventa giusta a posteriori, né per decreto dei vincitori, anche se sono questi a scrivere la storia. E, infatti, il giudizio espresso in precedenza viene confermato e rafforzato e si inizia a vederne dei risultati: grazie alle parole e alle iniziative del papa, il mondo musulmano ha compreso che questa guerra non è una crociata cristiana contro l’islam. Il tanto paventato scontro di civiltà, preconizzato anni or sono da Huntington, non si è prodotto in questa congiuntura e, anzi, risulta oggi meno ineluttabile di prima.
Va anche registrata una delusione nei confronti del papa, della Chiesa e del mondo cattolico, soprattutto da parte di quegli intellettuali che parevano diventati riferimento e mediatori nel tentativo di legittimare l’incontro tra cattolicesimo e liberalismo, come osserva acutamente Massimo Borghesi su Trentagiorni. Una delusione che, tuttavia, raramente si esprime in attacchi diretti al pontefice – solo il consigliere americano per la sicurezza nazionale ha affermato che “il Vaticano si è comportato come al solito, come ha fatto con Hitler” – mentre usa toni velati di disprezzo e attacchi personali contro quanti, senza osare “interpretare” il magistero papale, cercano di farsene eco, accostandolo a documenti precedenti del medesimo magistero o a parole espresse da istanze autorevoli della Santa Sede. Così, quanti – senza essere fondamentalisti del pacifismo – hanno osato negare il proprioamena questa guerra, sono stati accusati di antiamericanismo: ma un cristiano non accetterà mai che per giustificare l’inaccettabile sia utilizzato il nome di Dio, comunque lo si declini: Deus vult, Gott mit uns, In God we trust, Allah akbar…
Invero nessuno contesta che Bush, il quale si confessa cristiano, abbia deciso questa guerra rispondendo alla sua coscienza e nessuno lancia scomuniche contro quei cristiani che hanno considerato legittima questa guerra giudicandola di difesa, ma credo sia impossibile accettare come cristiane ed evangeliche affermazioni come quelle pronunciate da George W. Bush: “Questa è una crociata contro il Male assoluto! … Dio non è neutrale davanti al Bene e al Male: Dio è con l’America! Il mio governo non teme la fede e i programmi basati sulla fede… Prego Dio che mi dia la forza perché niente incrinerà la nostra fiducia nella missione dell’America nel mondo”. È consentito a questo proposito riprendere le parole di Jim Winkler, responsabile del dipartimento “Chiesa e società” della chiesa metodista cui appartiene il presidente USA: “Bush e i suoi confondono la croce con il fucile”? È lecito ricordare che quarantasei esponenti di chiese cristiane statunitensi hanno chiesto a Bush un incontro per discutere con lui di questa guerra ben prima che iniziasse e attendono ancora oggi una risposta?
Sì, apocalisse è anche questo alzarsi del velo sulle intenzioni e sugli interessi di chi sta facendo una guerra mascherandola con l’assurda spaccatura tra antiamericani e filoamericani: purtroppo questo scontro per il domani della civiltà è qui, in mezzo a noi, nel mondo occidentale innanzitutto, ed è uno scontro destinato a protrarsi a lungo. In questo contesto, il papa continua a essere limpida voce di pace e a chiedere ai cristiani di restare vigilanti, “sentinelle di giustizia, perdono e pace”, anche a costo di essere disprezzati, contraddetti e perseguitati. I cristiani non temono l’ostilità: fin dalla loro nascita sono abituati alla persecuzione e sanno che questa è solo un’occasione per essere più fedeli al vangelo. Ma le chiese cristiane non potranno mai riconoscere come conforme al vangelo un ordine internazionale instaurato con la forza bruta della guerra, perché la legge di Dio non è la legge del più forte; dovranno vigilare nella consapevolezza acquisita nei secoli che, quando una potenza diventa superpotenza unica al mondo, le derive totalitarie sono inevitabili; la condanna della bibbia su Babele fu proprio una condanna verso una potenza unica, con una sola lingua, un solo nome, una sola legge: la forza.
Enzo Bianchi