Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Il papa e la guerra: non nel Nome di Dio

28/03/2003 00:00

ENZO BIANCHI

Quotidiani 2003,

Il papa e la guerra: non nel Nome di Dio

La Stampa

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28 marzo 2003

Da alcuni mesi, non passa giorno e occasione in cui Giovanni Paolo II non intervenga confermando e approfondendo il suo insegnamento sulla pace, magistero che su tre punti in particolare ha conosciuto in questi ultimi anni un autentico accrescimento. Innanzitutto l’affermazione, inedita e vigorosa, che la pace è frutto non solo della giustizia, ma anche del perdono. Esito di una personalissima lettura delle sante Scritture, come rivelato dallo stesso Giovanni Paolo II, questa convinzione si spinge oltre l’affermazione biblica che la pace è opera, conseguenza della giustizia (“opus iustitiae pax” diceva il profeta Isaia) e specifica che la giustizia, per essere tale e suscitare la pace deve contenere in sé anche la dimensione del perdono: non può quindi essere pensata in termini antitetici al perdono ma, al contrario, quest’ultimo è immanente al principio della giustizia autentica. E questo dato, per Giovanni Paolo II non deve essere solo una convinzione e una prassi nella vita personale del cristiano, ma deve profilarsi nella società come “politica del perdono espresso in atteggiamenti sociali e istituti giuridici” in cui la giustizia è esercitata e riproposta: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono!” è l’affermazione espressa con forza dal papa nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2002.

 

Un secondo appello – di cui si è colta l’urgenza sotto l’incalzare degli eventi successivi che hanno visto un disprezzo del diritto internazionale da parte di chi ha dichiarato questa guerra – è quello lanciato nella stessa occasione per il 1° gennaio di quest’anno, rievocando i quarant’anni dell’enciclica Pacem in terrisdi papa Giovanni: la convinzione della necessità di una “nuova organizzazione dell’intera famiglia umana per assicurare la pace e l’armonia tra i popoli”. Il papa è estremamente esplicito: non si tratta di un “super-stato globale” – e tantomeno di un “nuovo ordine mondiale”, concetto del tutto estraneo al diritto internazionale, come ha fatto notare la diplomazia vaticana – ma una forma di organizzazione mondiale capace di rappresentare i diritti di tutti i popoli ed essere così strumento di pacificazione e di giustizia nel mondo. Questo continuo ricordare e invocare un’autorità internazionale nasce dalla consapevolezza, acquisita dalla chiesa in virtù dell’esperienza storica, che una potenza unica nel mondo, un’unica super-potenza è tentata di totalitarismo: non può essere diversamente, e la chiesa lo sa!

 

La terza convinzione di Giovanni Paolo II è che la chiesa oggi misura la propria fedeltà al suo Signore e compie nel contempo il suo servizio di evangelizzazione soprattutto attraverso “il vangelo della pace”, cioè l’annuncio della pace tra le nazioni e tra gli uomini, mostrando ai non cristiani il proprio rifiuto verso ogni forma di intolleranza religiosa e qualsiasi scontro tra culture e religioni: nessun spirito di crociata è più possibile, né alcuna demonizzazione dell’islam, unica religione abitata, al pari del cristianesimo, da un anelito universalistico e missionario.

 

Ora, qual è la ricezione di questo multiforme ma univoco messaggio di pace del papa? Le chiese locali, sia prima che durante questa guerra, mostrano che c’è stato un mutamento vistoso in ambito cristiano sul tema della pace. L’enciclicaPacem in terris, i richiami di Paolo VI, ma soprattutto i ripetuti interventi di Giovanni Paolo II hanno inciso in profondità nel tessuto della chiesa. La mia generazione ricorda bene come, nell’ora della guerra in Vietnam, all’interno della chiesa fossero solo i giovani universitari cattolici a chiedere pace, andando incontro in diversi casi a censure e richiami da parte delle autorità ecclesiastiche locali. Oggi sono sovente proprio i vescovi a organizzare veglie, fiaccolate, digiuni e preghiere per la pace!

 

Di fronte a questa testimonianza cristiana contro la guerra – che inoltre assume per la prima volta connotazioni marcatamente ecumeniche, con iniziative e appelli comuni o convergenti da parte delle diverse confessioni cristiane – quanti avevano ritenuto che la chiesa si fosse ormai rappacificata con il potere del libero mercato e omologata all’ideologia occidentale si sentono frustrati e delusi. Ogni giorno intervengono nei mass media o per criticare il papa, nel quale vedrebbero prevalere la dimensione di opinion leaderdel pacifismo rispetto a quella pastorale e spirituale del suo ministero, o per fornire distinguo e interpretazioni riduttive al suo magistero: il papa non è pacifista, il papa contrasta ma non condanna questa guerra contro l’Iraq, il papa si distanzia dal pacifismo di vasti settori del mondo cattolico… Salvo essere puntualmente smentiti da ulteriori interventi del papa. Si cerca insomma di attutire la portata dei messaggi del papa, disquisendo su sfumature di linguaggio e vivisezionando espressioni e toni usati, invece di riconoscere la trasparenza e la coerenza di una ammonizione veramente profetica. Non si dovrebbe dimenticare che già in occasione della guerra del Golfo nel 1991 era avvenuto qualcosa di analogo, anche se allora la voce del papa aveva avuto minore accoglienza e coralità da parte degli stessi ambienti cattolici.

 

Non c’è alcuna ideologia di fondamentalismo pacifista nella posizione del papa, perché la chiesa non esclude in modo assoluto il ricorso alla forza, ma c’è un chiaro e forte “mai” pronunciato nei confronti della guerra, come del terrorismo e di ogni forma di violenza, quando viene intrapresa senza la giusta causa della difesa da un’aggressione e senza aver prima esperito tutte le vie di dialogo, di confronto, di risoluzione dei problemi con mezzi non bellici. Andrebbe anche sottolineato che, quando si invocanotuttigli strumenti alternativi alla guerra, si fa appello implicito a escogitarne sempre di nuovi, a sperimentarne di inediti: l’innovazione, la fantasia e l’abilità tecnica non devono essere patrimonio esclusivo dei costruttori di armamenti e degli strateghi militari. Proprio per la trasparenza della sua posizione, il papa nei giorni scorsi ha potuto affermare in un discorso ai cappellani militari che “il vasto movimento contemporaneo a favore della pace traduce la convinzione di ogni continente e ogni cultura che la guerra come risoluzione delle contese tra stati va ripudiata”.

 

È certo che questa martellante insistenza del papa a favore della pace ha trovato enorme ricezione anche nel mondo musulmano che ha capito come questa guerra sia una guerra anglo-americana e non cristiana, come invece Bin Laden e altri si erano immaginati e forse anche augurati: autorità musulmane di ogni paese hanno espresso apprezzamento e gratitudine per le parole di Giovanni Paolo II e per gli sforzi operati dalla Santa Sede. È significativo che l’autorevole imam Sayed Tantouni di El Azhar al Cairo abbia dichiarato il proprio rifiuto a considerare questa guerra come una guerra contro l’islam, abbia messo in evidenza come essa provochi sofferenze a cristiani e mussulmani e abbia ringraziato il papa per il suo coraggio. È un atteggiamento – quello del papa, condiviso dalle massime autorità delle diverse chiese cristiane, d’oriente e d’occidente – che ha tolto ogni credibilità alla ostentata fede cristiana di George W. Bush, un uomo che fa sapere di iniziare ogni riunione politica con la preghiera, che invoca Dio contro il Male impersonato oggi da Saddam, che recita quotidianamente i salmi invocando l’aiuto di Dio per la propria azione militare, in una logica che speravamo di non dover più rivedere dopo ilGott mit unsnazista. In questo è affiancato dalla destra religiosa delle correnti evangelicali e fondamentaliste – che trovano credito anche in alcuni ambienti cattolici pronti a spacciare per “teologi” dei prezzolati affabulatori di corte – che sognano il cristianesimo come “religione civile” del nuovo impero. Tuttavia il vescovo Melvin Talbert, appartenente alla stessa chiesa di Bush, lo ha sconfessato ribadendo che egli “non segue né il vangelo né l’insegnamento della chiesa di cui è membro, ma un’ideologia che non appartiene al cristianesimo”. Di fronte alle affermazioni di Bush, tristemente parallele a quelle di Saddam nel definire questa guerra come combattuta nel Nome di Dio, come uno scontro tra il Bene e il Male, il cardinal Ratzinger ha reagito definendole “bestemmie”, il papa ha  ricordato che “il bene è la pace, il male è la guerra” e una nota del portavoce vaticano ha evocato il momento supremo e ultimo, ammonendo che chi “decide questa guerra se ne assume la responsabilità davanti a Dio, alla propria coscienza e alla storia”. Sì, per la chiesa che disarmata cerca di fermare la follia delle armi l’ultimo monito è quello che fa appello al giudizio di Dio, nella fede che esso un giorno avrà luogo e renderà manifesta tutta l’empietà di chi ha invocato Dio in proprio favore calpestando in nome suo il vangelo.

 

Nel frattempo però, nei giorni bui che sono i nostri, simili atteggiamenti non potranno che avere tragiche conseguenze. Come ha ricordato mons. Jean-Louis Tauran, avendo rinunciato a “far prevalere la forza del diritto sul diritto della forza, … questa guerra genererà tutti gli estremismi possibili, anche quello islamico, … provocherà terrorismo e infliggerà una grande ferita al dialogo tra cristianesimo e islam”. Intanto queste ferite le stiamo già sperimentando nell’imbarbarimento della nostra vita quotidiana: se si irride, come purtroppo ha fatto un docente dell’Università cattolica, alla forza del diritto, paragonandola alla “panna montata” e contrapponendola alla forza che sarebbe “la torta al cioccolato”; se di fronte alla tragedia dei profughi si aizza il gretto egoismo del nostro benessere proclamando “profughi qui non ne vogliamo: stiano a casa loro!”, dobbiamo costatare amaramente che la guerra ha già fatto anche da noi le sue “vittime civili”, ha fatto della civiltà la sua prima vittima. Sì, molti temevano e temono questa guerra come scontro tra civiltà e religioni diverse: in verità lo scontro avviene da noi, nella nostra stessa società, tra chi cerca la civiltà e chi vuole la barbarie.

 

Enzo Bianchi