22 marzo 2003
Cosa sta avvenendo nelle nostre società che un tempo chiamavamo “cristiane” e che, anche una volta divenute “laiche” e multietniche, permangono intessute di codici culturali radicati nel cristianesimo? Società in cui ci si affretta ancora ad arruolare Dio al proprio fianco nelle battaglie, ma poi ci si guarda bene dal mettere in pratica i suoi comandamenti, a cominciare dal più antico “non uccidere”; società in cui tutti applaudono a un anziano pontefice quando parla di amore, di solidarietà, di pace e di perdono, ma poi molti, anche tra coloro che appartengono alla chiesa di cui è pastore, ne disattendono concretamente le indicazioni nei campi più disparati: i giovani nei loro comportamenti in diversi ambiti della morale, gli adulti nelle loro scelte economiche, i politici nelle loro decisioni sull’amministrazione della giustizia e nella loro accettazione di una logica di guerra. Cosa sta avvenendo? È la tanto auspicata autonomia dello stato dalla chiesa? È la raggiunta età adulta della laicità che può finalmente vivere dei suoi valori? È la “rivincita” di Dio o del religioso a livello di principi, accompagnata dalla sconfitta sul campo della prassi? È il tramonto dell’identificazione tra cristianità e messaggio evangelico o è la fine del cristianesimo stesso? E questo avviene per perdita di coesione interna ed implosione oppure in seguito a fattori esterni, per smarrimento di identità o per contaminazione da multiculturalità?
Anche il dibattito che si è acceso in ambito europeo circa l’esplicito riferimento a Dio da inserire o meno nella “Carta costituzionale” è sintomatico di queste incertezze: quando un paese allora ancora profondamente cattolico come l’Italia si diede la propria Costituzione repubblicana, non ritenne di dover menzionare in essa i propri convincimenti di fede né specificare da dove le venissero determinati valori; oggi si arriva al paradosso di un rappresentante italiano che propone di inserire il riconoscimento delle “comuni radici giudaico-cristiane come valori fondanti del patrimonio” dell’Unione europea, cancellando contestualmente l’indicazione che “essa mira ad essere una società pacifica che pratica la tolleranza, la giustizia e la solidarietà”. Che sarebbe come dire: lodiamo le radici di quell’albero e intanto tagliamone i rami e gettiamone via i frutti migliori.
Stagione davvero complessa la nostra. E per chi ha seriamente a cuore la fede cristiana, l’annuncio dell’evangelo e il suo coniugarsi con la convivenza civile, le domande si fanno oggi particolarmente scottanti, anzi ve ne è forse una sola, brutale nella sua essenzialità: “Cristo ha un futuro? In altri termini: colui che viene chiamato così rimarrà come una figura importante dell’umanità, o qualcosa di più, o invece scomparirà per ridursi a vestigia di ciò che è morto?”. È quanto si chiede Maurice Bellet nel suoLa quatrième hypothèse. Sur l’avenir du christianisme(Desclée de Brouwer, Parigi 2001), partendo dalla constatazione che il cristianesimo, quindi l’annuncio di Cristo, quindi, in un certo senso, Cristo stesso, sono minacciati di estinzione. E questo acuto osservatore “interno” alla fede cristiana, con la sua rara capacità di provocazione, delinea quattro ipotesi per l’avvenire del cristianesimo. La prima non fa che prendere atto della scomparsa del fenomeno cristiano: “il cristianesimo scompare e, con esso, il Cristo della fede… Se ne va. Svanisce. È indolore. Non ci si pensa neanche più. Scomparsa”; restano delle tracce: monumenti, opere d’arte, forse qualche elemento dell’inconscio collettivo e un nucleo consistente di adepti… La seconda ipotesi delinea una dissoluzione: l’apporto di valori evangelici entra a far parte del patrimonio comune dell’umanità come un anello di una tradizione più grande, una componente di un sistema di pensiero e nulla più; “Gesù può anche trovarvi un posto, come nel pantheonindù”: è forse quello che alcuni vogliono veder fissato nero su bianco nella carta dell’Europa? La terza ipotesi è che il cristianesimo continui, attraverso una dialettica fatta di conservazione, di restaurazione e di aggiornamento, in cui opzioni anche opposte – Bellet cita Pio IX e Giovanni XXIII, canonizzati insieme – permangono “interne a uno stesso insieme, fondamentalmente invariato”.
Qui mi chiedo se non si stia facendo strada un’ipotesi che Bellet non delinea come tale, ma che in certo senso raccoglie elementi della sua seconda e terza prospettiva e che, da tempo presente nel mondo anglosassone e del nord Europa, sta prendendo piede anche in paesi come l’Italia: quella di un cristianesimo visto innanzitutto come cultura di un popolo, coniugato come “religione civile” che assicura il ricompattarsi della società e che si ammanta di evidenti risultati culturali. Un presenza cristiana che apparirà sempre più come declinazione dell’equazione “cristianesimo uguale occidente”. Va riconosciuto che oggi la politica avverte il bisogno di utilizzare il codice religioso e pertanto è pronta al riconoscimento dell’utilità sociale della religione. È un atteggiamento indubbiamente estraneo alla grande tradizione cattolica, ma che di fatto viene incoraggiato per nostalgia di una riedizione del mito della cristianità e salutato come necessario per la nostra società sempre più frammentata e smarrita.
Infine la “quarta ipotesi”, quella che già il titolo del libro ci aveva fatto capire che sarebbe stata la più approfondita, quella verso la quale si orienta l’attesa dell’autore: qualcosa conosce inesorabilmente la fine, “qualcosa muore e non sappiamo fin dove questa morte scende in noi”. È la fine di un sistema religioso, legato all’età moderna dell’occidente da un rapporto di interdipendenza. Ma con questa morte si arriva come a un capolinea, dove non si sa se la ripartenza sarà verso il peggio o verso il meglio: l’unica cosa che si sa è che questo dipende in massima parte da noi. E allora l’interrogativo brutale – “Cristo ha un futuro?” – rimane, ma assume i connotati di una domanda ricca di speranza: in questo luogo di un nuovo inizio, in questo sorta di ground zero, “l’evangelo può apparire come evangelo, cioè la parola, appunto, inaugurale che apre lo spazio di vita? Il paradosso è grande, perché l’evangelo è vecchio… Ma forse il tempo delle cose capitali non è retto dalla cronologia; forse la ripetizione può essere ripetizione dell’inaudito, così come, dopo tutto, ogni nascita di un uomo è una ripetizione banale e, ogni volta, l’inaudito”.
Sono convinto che un cristianesimo che sappia rinunciare a ogni forma di potere diverso dalla parola disarmata, che faccia prevalere la compassione sulla legge, che riesca a parlare al cuore di ogni uomo facendogli intravedere che la morte non è l’ultima parola, potrà essere un canto, una voce sempre più ascoltata. Ma questo richiede che i cristiani di esercitino a essere quelle sentinelle della libertà, delle giustizia e della pace che Giovanni Paolo II ha più volte evocato nela sua chiaroveggenza sul futuro del cristianesimo nel mondo. Certo, non va percorsa la strada di quanti, nella loro fede incerta, si aggrappano a false certezze, ricercano un’identità cristiana controaltre vie religiose, sperano in forti mobilitazioni e preferiscono annunciare una babele prossima ventura dovuta all’incontro delle religioni, piuttosto che operare affinché ci sia una nuova pentecoste.
Sì in un mondo e in una società che quando si affretta a dire che “nulla sarà più come prima” e che si vedranno “scenari mai visti”, si riferisce sempre a eventi tragici, a tragedie immani, a un dispiegarsi di forze di morte, forse c’è ancora posto per un cristianesimo che sappia ripresentare l’inaudito di una buona notizia, l’inatteso ritrovamento di un senso non solo per le singole vite ma per la stessa convivenza civile, forse c’è ancora spazio per dei cristiani liberati dalle paure e aperti a una speranza per tutti.
Enzo Bianchi