24 gennaio 2003
Avendo scelto Orizzonti europeicome titolo dell’appuntamento periodico con i lettori che mi è stato affidato, mi è parso naturale cercare di delineare per prima cosa l’estensione di questi “orizzonti”, e subito è emersa una tematica quanto mai attuale: fin dove possiamo o dobbiamo spingere oggi i confini dell’Europa? Segni contraddittori sono davanti ai nostri occhi: una dozzina d’anni fa è crollato un muro e si è liquefatta una cortina, l’imminente ingresso di Malta e Cipro nell’Unione Europea ha riportato al largo, al cuore del Mediterraneo, il limite dello spazio percepito come “nostro”, l’insistente bussare della Turchia alle porte dell’Europa fa percepire, indipendentemente dall’auspicabile risposta di apertura, che neppure la religione può costituire una frattura insuperabile o un confine certo. D’altro canto, in questi ultimi mesi, in Israele si sta erigendo un nuovo muro per separare due popoli in atavica lotta tra loro, capaci di infiggersi reciprocamente ferite disumane; pochi anni prima era crollato sotto i colpi dell’odio il ponte di Mostar che collegava due culture prima che due sponde di un fiume; così come nella seconda metà del secolo scorso alcuni paesi del Maghreb avevano visto il sogno dell’indipendenza, finalmente realizzato, trasformarsi in un incubo di incomprensioni e di ostilità all’interno come verso l’esterno. Inoltre, scambi commerciali e approvvigionamenti di fonti energetiche, flussi migratori attratti come sempre dal più potente dei magneti, il pane, e sviluppo dei mezzi di comunicazione hanno rimescolato limiti e certezze, suscitando una dinamica che è vitale per alcuni e fonte di fobie e di ripiegamento su di sé per altri.
Nel delimitare l’orizzonte europeo, allora, credo non si possa fare a meno di spingere lo sguardo verso est, la millenaria frontiera più volte traumaticamente varcata in un senso e nell’altro, e verso sud, verso quel Mediterraneo in cui nascono i miti fondatori della nostra civiltà (si pensi al ratto di Europa, appunto, al pellegrinare di Ulisse o al “limite estremo” delle Colonne d’Ercole) e la Bibbia, codice nascosto del nostro universo di pensiero, anche laico. Si tratta di pensare frontiere più ampie di quelle geo-politiche, di spingere lo sguardo verso un oltre che non è del tutto ignoto perché si nutre anche della memoria, del passato, di quanto ci ha preceduto e che possiamo ritrovare come un amico fedele, rimasto ad aspettarci al di là del muro del nostro oblio.
Come monaco, per vocazione chiamato a vivere “ai margini” della chiesa come della società, la frontiera mi è familiare, e familiare mi è quel restarci, cercando di gettare un ponte, di aprire una breccia, di lottare contro la deriva progressiva che porta all’estraniamento. È l’esperienza che in questi anni, per esempio, ha attraversato, e attraversa ancora oggi, la chiesa di Algeria, una chiesa “di frontiera”, posta sulla linea di frizione tra due placche tettoniche, tra due mondi culturali e religiosi che molti vedono in rotta di collisione, avviati verso un inevitabile “scontro di civiltà”. Ed è proprio “sulle fratture del mondo, per la riconciliazione, il posto della chiesa: se non è lì, non è da nessuna parte”, come scriveva poco prima di essere assassinato, assieme al suo giovane autista musulmano, il domenicano p. Pierre Claverie, vescovo di Orano.
Perché è il concetto stesso di “frontiera” che interroga le nostre identità religiose e culturali, che le mette alla prova, che le stimola a ritornare all’essenziale e a riscoprire la ricchezza dell’alterità. “Sulla frontiera l’esistenza è forgiata in rapporto a chi è l’altro, questo altrosempre presente per il fatto che la frontiera, per definizione, presenta sempre due lati”, scrive con appassionato realismo Michel Warschawski (Sur la frontière, Stock, Paris2002), un uomo davvero di frontiera: figlio dell’ex-rabbino capo di Strasburgo (città-frontiera al cuore dell’Europa occidentale), trapiantatosi sedicenne a Gerusalemme (allora minuscola enclave israeliana in territorio giordano) per studiare il Talmude divenuto militante della sinistra radicale israeliana, condannato a trenta mesi di prigione per sostegno a organizzazioni palestinesi illegali, ora co-presidente del “Centro di Informazione Alternativa” di Gerusalemme, gestito insieme da ebrei e arabi, da israeliani e palestinesi accomunati dalla fame e sete di giustizia.
Sì, ogni frontiera, che sia geografica o interiore, ogni muro, che sia di pietra o di idee, presenta sempre due lati e “prima di fare un muro dovrei chiedermi – con il poeta Robert Frost – quello che intendo includere o escludere / e a chi potrei recare danno”. Se, infatti, è vero che “la civiltà latina si fonda sulla nozione di confine come di qualcosa che non è bene oltrepassare” e che “se non si riconosce un confine oltre il quale non è lecito andare, non può esserci civitasné cultura” (così Umberto Eco chiosando Orazio nella prefazione aFrontiere, Il Sole 24 Ore, Milano 2001); se è vero che “la legge stessa è una frontiera, che separa il permesso dal vietato” (M. Warschawski), resta tuttavia innegabile che le frontiere sono destinate a essere superate, varcate a più riprese, deliberatamente o inavvertitamente, fino a essere spostate verso un oltre che a poco a poco ingloba ciò che prima escludeva.
Le frontiere tracciate dagli uomini, anche se seguono anse di fiumi o profili di catene montuose, restano sempre convenzionali e, di fatto, mutabili. Questo non le svuota di significato, anzi: a volte essere al di qua o al di là è una differenza che significa vita o morte. Le frontiere sono necessarie e non è dato un mondo “senza frontiere”, ma la vera sfida rimane assicurare che esse siano transitabili: allora saranno la garanzia della diversità riconciliata, della differenza accolta. Attraversate, infatti, le frontiere permettono l’incontro e la conoscenza dell’altro. “Proprio mentre le frontiere accentuano il loro ruolo di luoghi permeabili del confronto e della ricomposizione, di filtro che fa decantare le tensioni e passare le sintesi – osserva Antonio Calabrò nell’Introduzione a Frontiere– guai a pensare che le frontiere siano scomparse, le distinzioni annullate. Tutt’altro. Nuovi conflitti, nuovi squilibri prendono corpo, nuove tensioni agitano il mondo. Così, al lavoro intellettuale e alla ricerca si pongono responsabilità di indagine molto più faticose di un tempo”. Ecco, di simili assunzioni di responsabilità vorrei farmi eco, stando sulla frontiera ma senza essere tentato dal sincretismo, nel mio gettare lo sguardo su “orizzonti europei” i più vasti possibili.
Enzo Bianchi