24 dicembre 2002
Chi resta insensibile al Natale? Chi arriva a rifiutarsi di vivere questa festa? Chi non gli attribuisce un significato, un sapore particolare? Pochissimi, credo. Basti pensare che non solo quanti non si professano credenti, ma anche molti immigrati, che vivono in mezzo a noi, provengono da un’altra cultura e professano un’altra fede, si sentono contagiati almeno dall’atmosfera di festa.
I cristiani celebrano questa ricorrenza da circa diciassette secoli, da quando hanno cominciato a ricordare la nascita di Gesù, colui del quale festeggiavano già con grande intensità soprattutto la morte e resurrezione nella solennità della Pasqua. Siccome per loro Gesù di Nazaret era il Messia, il vero sole, vollero celebrarlo nel momento dell’anno in cui il sole ricomincia a vincere la notte e cessa di declinare all’orizzonte per sorgere vittorioso sempre più in alto. Sì, Gesù, quello che i cristiani credono inviato da Dio tra gli uomini, non è apparso miracolosamente, scendendo in gloria dai cieli, come negli schemi delle teofanie classiche, ma è comparso come un neonato, venuto al mondo come ciascuno di noi, è entrato nella nostra storia umanissima, mostrando come prima cosa questa sua qualità umana. È in essa che i discepoli hanno imparato a scorgere tracce del divino, fino a esprimere la loro fede in Gesù come fede nel Figlio di Dio: è nella vita quotidiana, una vita umana contrassegnata però dall’amore fino all’estremo, che Gesù, come dice il quarto Vangelo, ha “narrato” Dio.
Non sorprende allora che, soprattutto nell’occidente cristiano, la festa del Natale abbia presto cominciato ad arricchirsi di significati molto “umani”. Il Dio eterno che si fa mortale, il Dio infinito che si fa piccolo, il Dio onnipotente che si fa debole e appare tra gli uomini come un bambino (“nato da donna”, dirà san Paolo), nasce, cresce come qualsiasi essere umano, minacciato dalla morte, vittima della malvagità di alcuni uomini: tutto questo ha immesso nella festa del Natale qualcosa che tocca tutti perché riguarda ogni uomo. Così il Natale è diventato la celebrazione della nuova vita che continua, è diventato il giorno in cui si osano manifestare i desideri più comuni e più umani: desiderio di amore, innanzitutto, di amare e di essere amati; desiderio di felicità, cercata da tutti come realtà che dà il senso primario alla vita; desiderio di pace che permette di pensare se stessi e la vita senza liti né inimicizie, senza violenza né ingiustizia.
Forse è proprio per questo che si guarda soprattutto al “bambino” – quello del presepe, sì, ma anche quello che è in casa, il figlio, il nipotino e quello che è rimasto nel cuore di ciascuno di noi – e si fa festa per lui: Natale è la festa delle nostalgie che ci abitano e solo chi ha il cuore irrimediabilmente indurito non ha nostalgia di una vita più felice, di una terra più abitabile, di rapporti più fraterni e più buoni. E poi, almeno per una volta nell’anno, vinciamo la lotta contro il tempo di cui siamo schiavi e riusciamo a dedicare qualche ora agli altri, allo stare insieme nella gratuità, perché solo “insieme” si fa davvero festa! Ecco perché il Natale è una festa “dura”, anzi non è festa ma è giorno triste per chi è condannato alla solitudine della separazione, del carcere, dell’emigrazione, è giorno triste per chi è ferito nello spirito o malato nel corpo, per chi non può allontanare da sé la potenza della morte...
La fede cristiana confessa che gli uomini, tutti gli uomini, sono fatti a immagine di Dio, ognuno di essi è capace di fare il bene, è capace di amore, di comunicazione, di solidarietà: anche l’uomo più delinquente, più ostile agli altri uomini e nemico della convivenza civile, mantiene in sé questa capacità, che è solo umana, di amore per l’altro. E proprio per questo, perché gli uomini siano più uomini, Dio si è fatto uomo per insegnarci a vivere in questo mondo in un modo che canti la vita e sia lotta contro il potere della morte. Sì, i cristiani, nel passato e ancora oggi, a volte non si sono fatti capire, ma la loro fede proclama questo e non altro! Nella fede si contempla Dio diventato bambino, uno di noi, uno che ha camminato sulle nostre strade accanto a noi, come un viandante che offre la sua mano a chi vuole camminare con lui.
Allora il Natale è festa nonostante le asprezze e le ferite che attraversano il cammino. È la festa della famiglia, perché il primo luogo in cui viviamo le feste è quello: tra marito e moglie o tra conviventi, abbiamo bisogno di essere ciascuno più capace di ascolto verso l’altro, di essere meno aggressivi, meno violenti, abbiamo bisogno di comunicare meglio affinché anche i figli crescano senza soffrire per le durezze del rapporto dei genitori. Ma per molti questa festa familiare quest’anno è ferita perché nodi irrisolti di crisi industriali ed economiche azzerano sicurezze per l’oggi e per il domani, lasciando senza lavoro a metà della vita chi aveva creduto che le sue fatiche avrebbero continuato a garantire a se stesso e ai propri cari un’esistenza tranquilla e serena...
Il Natale è anche la festa della pace: gli uomini sanno che la più grande tragedia che possa succedere è la guerra, perché la guerra semina morte e la morte è separazione, fine dell’amore e degli affetti... E noi in questi giorni siamo alla vigilia di una guerra, anzi, di un’aggressione: la follia di alcuni uomini, il lucido calcolo di un potere rimasto incontrastato al mondo la sta preparando e anche molti di noi, dimenticate le nostalgie per la pace, vissute e proclamate a Natale, finiranno per trovarvi delle ragioni... Come ricordava su queste colonne Barbara Spinelli, i pretesti finiranno per diventare le ragioni: le vere ragioni della guerra, infatti, sono taciute perché svelarle significherebbe dare loro il nome di consolidamento e accrescimento del benessere dei paesi occidentali a scapito degli altri. Siamo purtroppo in una stagione alla quale si applicano bene le parole scritte da Erasmo da Rotterdam nel 1502: “Al giorno d’oggi la guerra è un fenomeno così largamente accettato che chi la mette in discussione come necessità passa per stravagante e suscita meraviglia: la guerra è circondata da così tanta considerazione che chi la condanna passa per irreligioso, sfiora l’eresia!”.
Sì, questo Natale è un Natale ferito: ferito da questi bagliori di guerra, ferito sulle sponde del Mediterraneo dalla violenza tra Israele e i palestinesi che prosegue in una tragica spirale cui nessuno pare voler mettere fine. Eppure, proprio per questo, celebrarlo nonostante tutto vuole essere anche un’invocazione di speranza e una promessa di pace.
Enzo Bianchi