“Mai più violenza, mai più guerra, mai più terrorismo! In nome di Dio ogni religione porti sulla terra giustizia e pace, perdono, vita e amore!”. Questo l’impegno proclamato con forza in uno scenario di grande intensità umana e religiosa dal Papa e dai rappresentanti delle diverse confessioni cristiane e religioni del mondo. Questo evento, voluto da Giovanni Paolo II come antidoto allo scontro di civiltà, alle guerre che vantano ragioni religiose, al fanatismo e al fondamentalismo dai quali possono essere tentati soprattutto i monoteismi, appare gravido di conseguenze per il Cristianesimo, ma anche per l’Ebraismo e l’Islam.
Nel 1986, quell’iniziativa di Giovanni Paolo II aveva sorpreso: se l’ecumenismo era ormai diventato prassi nelle diverse chiese cristiane, un incontro delle religioni del mondo che prevedesse una preghiera per la pace non sembrava possibile. Eppure quel gesto, avvenuto ancora al tempo della guerra fredda, diventava una sfida: le religioni, fino ad allora osteggiate, anche se non più perseguitate, dai regimi comunisti e giudicate in Occidente come vicine al tramonto, potevano mostrare di essere ancora efficaci nella storia, capaci di porsi a servizio dell’umanità e di inoculare nel tessuto della società il valore del dialogo, del confronto non violento, della pace.
Oggi, a distanza di quindici anni, lo scenario mondiale è molto cambiato: crollate le ideologie che propugnavano l’ateismo, caduto il muro che simboleggiava la divisione del mondo in due blocchi, sono sorti i nuovi muri dei particolarismi etnici, si sono rafforzate le ideologie che, cercando di cavalcare il fattore religioso per i loro fini, difendono a spada tratta le cosiddette “identità culturali” minacciate dai flussi migratori, le religioni mostrano un rinnovato vigore propulsivo, ma nello stesso tempo rischiano di essere strumentalizzate e devono guardarsi dal fondamentalismo che, dal loro interno, rischia di plasmare e narrare un volto perverso di Dio. Cioè, un volto escludente e non comunionale, violento e non di pace, il volto di un Dio “contro” alcuni uomini e non “per” tutti gli uomini. Insomma, un idolo!
Il terrorismo, che dall’11 settembre continua a mostrare l’inquietante forza del suo mortifero fondamento mediante attacchi suicidi e straordinaria capacità di seminare terrore e morte, la guerra in Afganistan, una caccia a poveri straccioni che ha comportato stragi di civili inermi, il conflitto in Terra santa in cui ad atti terroristici Israele risponde non solo con la difesa, ma anche con la ritorsione, la vendetta, la rappresaglia, hanno indotto il Papa ad una nuova convocazione ad Assisi per un duplice scopo. Anzitutto per pregare per la pace, nella convinzione che la preghiera non induce a un’evasione, ma è una componente efficace della storia: ovviamente questo elemento, irrinunciabile per i credenti, lo comprende solo chi ha grande fede e identità cristiana salda! Ecco dunque la convocazione cui hanno risposto per la prima volta tutte le chiese ortodosse e alcune di esse con la presenza stessa del loro Patriarca.
Ma c’è anche un altro scopo: se le religioni si incontrano, se sinceramente pregano per la pace, se insieme assumono l’impegno di essere fedeli alla loro vocazione, allora non potranno più essere facilmente strumentalizzate per scopi politici e comunque non cederanno al fondamentalismo e al fanatismo che le rende foriere di violenza, guerra, intolleranza. Chi ricorda il libro di P. Crépon,Le religioni e la guerrao, più recentemente, quello di S. Huntington,Lo scontro delle civiltà, non può non vedere nell’evento di Assisi una novità e una reazione che vogliono divenire efficaci nella vita delle religioni. Nonostante la possibile tentazione dell’ostentazione di fronte al mondo, insita negli eventi che divengono subito, “in diretta”, fatti mediatici, ad Assisi c’è stato un vero interrogarsi sull’impegno per la pace da parte delle religioni, c’è stata una meditazione sulle condizioni in cui la pace può diventare realtà, si è anche confessato che le religioni nel passato non sono state sempre fedeli al loro mandato di pace. E si sono udite parole audaci: prima il Patriarca ecumenico Bartholomeos e poi il Papa hanno avuto la forza di ricordare che il terrorismo nasce dall’ingiustizia e dall’oppressione dei popoli.
Non si deve poi dimenticare che, se l’Islam appare oggi come un interlocutore “nuovo” per le chiese d’Occidente, in realtà alcune chiese intervenute ad Assisi – come la chiesa ortodossa di Costantinopoli e quella di Damasco – si trovano in terre in cui l’Islam è la presenza maggioritaria e ininterrotta da molti secoli: i cristiani vivono in questi luoghi in condizioni di netta minoranza. E oggi, in certi zone della terra, alcune frange dell’Islam ne presentano un volto minaccioso e persecutorio: in Alto Egitto sono i Copti che soffrono, in Sudan gli Anglicani, in Indonesia, a Timor e in Pakistan i Cattolici... L’evento di Assisi significa dunque l’affermazione chiara che Dio non vuole che si uccida per Lui, che l’intolleranza e la violenza in nome di Dio sono una perversione della religione e una bestemmia. C’è una volontà, perseguita con ostinazione da Giovanni Paolo II: portare i credenti musulmani al dialogo convincendoli del rispetto e della stima che i cristiani hanno della loro fede e impegnare le altre religioni ad astenersi da qualunque contraddizione alla pace.
Infine, il messaggio del Papa sulla pace, ribadito dalle sue parole pronunciate ad Assisi, presenta una novità che non è stata ancora presa in sufficiente considerazione non solo dalla comunità internazionale, ma anche dalle stesse chiese: il messaggio che il concetto di giustizia, senza il quale non può esservi pace, include anche la nozione di perdono. Il perdono, secondo Giovanni Paolo II, non è solo l’atteggiamento richiesto da Gesù ad ogni suo discepolo colpito dal nemico, ma fa parte del processo della restitutio ad integrumdella giustizia e deve pertanto diventare operazione collettiva, prassi della polis in vista della pace. Per questo il Papa indica che il perdono deve trovare espressione e forme “in istituti giuridici e in atteggiamenti sociali” fino a fare emergere una “politica del perdono”. Per cancellare gli strascichi di odio e di rancore di conflitti atavici, per evitare la spirale della vendetta infinita, per creare una situazione di pace dove da tempo il conflitto dà espressione all’odio, è essenziale il perdono, il perdono reciproco dei crimini commessi. Se la guerra chiude il futuro e soffoca la speranza, il perdono apre e crea il futuro, così come la giustizia. Questa sfida che Giovanni Paolo II propone anzitutto ai cristiani e agli appartenenti alle religioni mondiali, non può non toccare anche i “laici, i “non credenti”, che, pur non presenti come invitati ad Assisi, sono nominati dal congedo del Papa come “uomini e donne di buona volontà che in ogni parte della terra sono idealmente uniti a noi nell’opera di pace”. Il perdono, la giustizia, la pace, sono patrimonio e responsabilità comune, di ogni uomo, nessuno escluso. Su di essi ogni uomo misura la propria umanità, ovvero la propria compassione con il sofferente, la propria solidarietà con il povero, il proprio rifiuto dell’indifferenza al male.
Enzo Bianchi