28 settembre 2001
Per chi è esercitato a pensare, quanto è accaduto l’11 settembre, quella profonda ferita all’umanità diventata “spettacolo in diretta” per milioni di uomini e donne della terra, suscita innanzitutto orrore, esige una decisa e assoluta condanna, invoca il ristabilimento di una situazione tale da rendere impossibile la ripetizione dell’evento, ma dovrebbe anche suscitare domande, sollevare interrogativi fino a offrire, attraverso l’enorme tragicità dell’evento, un insegnamento, una lezione. Se questo doloroso processo di apprendimento non avviene, o se imbocca percorsi di brutale semplificazione, non solo l’umanità resta depauperata di una interpretazione che costitutivamente le compete, ma si incammina ancor più rapidamente verso la voragine di una violenza nichilista in cui regna il pensiero che afferma: “uccido, dunque sono!”
Certamente un modo di leggere l’evento, modo sbrigativo che non sopporta la difficile strada dell’interpretazione, è quello tentato dai fondamentalisti religiosi che vedono nell’attacco alle Torri gemelle il “castigo di Dio”. Questi pseudo-profeti, che alzano la loro voce negli stessi Stati Uniti, gridano con certezza collerica che il castigo di Dio si è abbattuto su New York, il santuario simbolo dell’occidente depravato, amorale, vizioso, libertario... Jerry Falwell, il predicatore a capo della Bible Belt, dichiara che “Dio ha dato all’America quello che si merita” e Pat Robertson, un altro predicatore invasato, rincara la dose paragonando New York a Sodoma e Gomorra, castigate e sprofondate nel fuoco... È tragicamente impressionante la simmetria tra chi ha causato la distruzione e questi predicatori, le cui voci sono ripetute sommessamente dalla “gente” ben più di quanto sembri. I fondamentalisti islamici, infatti, pretendono di essere gli esecutori della giustizia e del giudizio di Allah “qui e ora”, e chi dà la sua vita per sterminarne altre, moltiplicando la sua morte nella morte di altri uomini, lo fa nella convinzione di eseguire un castigo decretato da Dio.
Sì, va affermato senza timidezza che nelle religioni si annida la possibilità della perversione di Dio: il Dio che i credenti confessano vivente, compassionevole e misericordioso, può diventare il Dio perverso, che interviene nella vita degli uomini con forze di morte per stroncare il peccato e castigare il peccatore. Anche nella bibbia vi sono pagine che, malamente decodificate e interpretate, sembrano andare in questo senso. Ma quando evochiamo queste possibili perversioni, non parliamo di eventualità lontane e minoritarie: anche nello spazio cristiano albergano germi di perversione dell’immagine di Dio. Così, se ieri il Dio furioso castigava con l’aids, oggi castiga colpendo l’occidente sazio e disperato...
In realtà quello che gli eventi chiedono ai credenti è di essere interpretati e di diventare insegnamento per noi, “qui e oggi”. Già il profeta Isaia (28,19) constatava che per i credenti a volte “solo il terrore rende capaci di capire” perché – come gli fa eco il Salmo 49,13 – “l’uomo nel benessere non capisce”. Purtroppo è così, ma non perché Dio castiga! In verità, e i cristiani dovrebbe saperlo e testimoniarlo giorno dopo giorno, Dio non castiga mai, né può castigare gli uomini mentre sono in vita: significherebbe violentarli nella loro libertà e gli uomini castigati sarebbero costretti ad agire secondo il volere di Dio. No, non c’è castigo di Dio qui e ora, né per i credenti che conoscono Dio, né per i non credenti che non lo riconoscono. C’è invece un giudizio di Dio alla fine della storia, ed è questo il giudizio predicato da tutti i profeti e da Gesù stesso, è questo giudizio che è confessato nel Credo cristiano: “verrà a giudicare i vivi e i morti!”. Nei nostri giorni, invece, dobbiamo leggere che non Dio ci castiga, ma che siamo noi a raccogliere, già qui e ora, il frutto del nostro operare.
Noi uomini, solo noi siamo responsabili del bene e del male che ci accade: per questo interrogarci sull’evento delle Torri gemelle non significa attribuire a Dio un intervento. E proprio perché non c’è intervento di Dio a New York dobbiamo chiederci non solo cosa ha spinto i portatori di morte a colpire il cuore simbolico dell’occidente di mercato (non si dimentichi il nome del complesso distrutto: World Trade Center), ma anche perché esistono condizioni in cui possono nascere, crescere e trovare senso uomini portatori di morte per altri uomini. Qui l’umanità tutta, ma innanzi tutto l’occidente colpito, deve interrogarsi sulle sue contraddizioni fondamentali tra libertà illimitata e ordine etico, tra libero mercato e appartenenza comune alla polis, tra individualismo sfrenato e condivisione dello spazio, della terra e dei suoi beni.
Purtroppo, quando Bush afferma: “Dobbiamo liberare il mondo dal diavolo... da una parte c’è il Bene e dall’altra il Male”, quando cita san Paolo a favore suo e dei suoi concittadini – “né la morte né la vita, né gli angeli né i principati, né il presente né il futuro ci separeranno da Dio” – dà sì voce allo sdegno popolare, ma non compie un’operazione tesa a capire, reagisce sì al crimine commesso, ma celebra ancora il Dio perverso del “Dio lo vuole ed è con noi” delle crociate... No, Dio non castiga, ma pone di fronte all’uomo, a ogni uomo, la via del bene e quella del male: se l’uomo si incammina sulla via del male incontra la morte e la violenza, la devastazione personale e collettiva. Questa è la realtà, terribilmente più impegnativa per ciascuno di noi.
In quest’ora in cui – stavolta senza ipocriti eufemismi – risuonano parole come “guerra”, “giustizia infinita” (presto corretta in “operazione infinita”, come se il termine improprio fosse “giustizia” e non quell’ ”infinita” che nega il futuro di pace sempre prospettato come orizzonte ultimo di ogni guerra), in questo momento in cui si assiste a una mobilitazione generale verso l’assenso alla guerra, colpisce la solitudine delle parole del papa che continua a chiedere che non sia la guerra la via per ripristinare la giustizia e stabilire una situazione di pace... Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Sodano, insiste nel chiedere “sapienza” da parte di chi ha in mano le sorti della pace o della guerra: ma chi ascolta se nessuna si interroga sugli eventi? Come è possibile arrivare a ipotizzare l’uso di armi atomiche come risposta all’attacco dei terroristi se non vietandosi di ricordare e di pensare alla potenza mortifera che esse contengono, potenza che non distingue tra terroristi e gente comune? Fornire risposte senza attraversare la fatica delle domande è la via del fondamentalismo islamico, ma è anche quella del fondamentalismo cristiano e del potere politico ed economico che non vuole essere messo in questione nemmeno dopo che il flagello è passato.
Perché in questi giorni di tenebre è tanto difficile pensare, perché non riusciamo a pensare noi stessi e gli “altri”, il mondo e Dio? Forse perché pensare esige una distanza che è lo spazio della lucidità e della criticità, mentre la risposta affrettata e immediata, così come la risposta che parla di castigo di Dio o che si appropria di Dio e si identifica al bene di fatto abolisce la distanza, cancella la vertigine, scongiura il senso di vuoto di chi accetta di riflettere guardando l’abissale voragine del male, e così lo rassicura. Forse perché non ci si vuole interrogare su quanto operiamo ogni giorno. Eppure solo qui, non altrove, solo da noi nasce il bene o il male, la vita o la morte.
Enzo Bianchi