26 ottobre 2020
In questi giorni di recrudescenza della pandemia non si può tacere un dramma vissuto da molti, benché sia il più possibile occultato.
Un dramma carico di dolore e sofferenza, di fronte al quale è nostra responsabilità reagire, per quanto possibile, in modo da contrastare il male che colpisce persone, famiglie e convivenze. Un dramma che non osservo dall'esterno ma nel quale mi sono trovato coinvolto in prima persona.
Una persona a me familiare, vedova e senza figli, verso gli ottant'anni è stata colpita da demenza senile.
Fino ad allora autonoma e piena di forze, seppur in una vita solitaria in casa, riusciva a vivere in pienezza relazioni con i vicini e i compaesani. Siccome nessuno poteva ospitarla, le si è provveduta una badante, ma la malattia, con manifestazioni anche violente, non permetteva questo tipo di assistenza. Così la si è dovuta per forza portare in una Rsa, dove però è peggiorata, sempre più estranea a questo mondo e, pur visitata da parenti, ha deciso di rifiutare il cibo fino a morire.
«Non si poteva far altro», abbiamo detto tutti, con l'esperienza di aver accettato nei decenni precedenti
questo cammino per molti dei nostri vecchi. Gli anziani sono ritenute persone che stanno per uscire dalla vita, e ad essi non solo non si riconosce più la saggezza dell'esperienza ma vengono considerati unicamente dal punto di vista demografico: quanto pesa la loro percentuale sulla società a livello medico; quale impegno comporta la loro assistenza; quale costo rappresentano per la società.
Molti sono soli, abbandonati, senza nessuno che li cerchi o li riconosca, invisibili e quasi senza nome, visto che nessuno più li chiama. In quest'ora di pandemia vivono la clausura e, nonostante quanto si è vissuto in primavera e la previsione della seconda ondata, nulla è stato approntato affinché l'isolamento potesse essere alleviato da possibili visite, in strutture apposite che permettano, senza il pericolo del contagio, di incontrarsi, vedersi, sorridersi e parlarsi.
E così la solitudine imposta diventa desolazione e ben presto disperazione. Sono queste le parole che ascolto più spesso da quegli anziani che mi telefonano dalle Rsa per sentire una voce amica. Forse perché ho molto ascoltato il grande teologo e visionario Ivan Illich, mio amico, ho sempre diffidato della "istituzione della carità": non solo perché è una carità "presbite", che demanda ad altri di stare vicino a chi noi teniamo lontano, ma perché istituzionalizzare orfani, malati e anziani significa ritenerli scarti, fuori dal giro della vita.
Abbiamo chiuso le case per malati mentali, abbiamo chiuso gli orfanotrofi: cerchiamo di chiudere presto anche le Rsa! Contrastiamo la follia che ci conduce a una vecchiaia artificiale di solitudine e di non vita, impegnandoci a percorrere vie diverse, come in altri Paesi: convivenze, condomini protetti, comunità, domiciliarità.
Altrimenti succederà sempre più ciò che molti vecchi mi hanno confidato: chiedono di non venire più curati e di essere lasciati morire al più presto. Povera umanità!
Pubblicato su: La Repubblica