Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Vie di umanizzazione. Noi, gli altri.

22/12/2020 23:00

ENZO BIANCHI

Conferenze archivio,

Vie di umanizzazione. Noi, gli altri.

ENZO BIANCHI

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Introduzione. L’altro siamo noi

 

Sono lieto di essere in mezzo a voi per riflettere sui cammini, le vie di umanizzazione. Nel mio intervento mi limiterò a esplorare solo alcune piste di questo argomento così vasto, del quale in questi giorni dell’VIIIa edizione del Festival della mente state affrontando ancora una volta aspetti numerosi e diversificati tra loro. Le mie riflessioni vogliono essere nient’altro che uno stimolo per ripensare questo tema così centrale nell’esistenza quotidiana di ciascuno di noi.

 

Tutti noi siamo convinti che l’umanizzazione si gioca nel rapporto tra l’io, il noi e gli altri, ma va detto che spesso ricorriamo troppo sbrigativamente a queste due categorie – «noi» e «gli altri» – per contrapporle. Ci appelliamo a esse anche in buona fede, per comprendere problemi, risolvere situazioni intricate, giustificare atteggiamenti e incomprensioni. Eppure se siamo appena più attenti, ci rendiamo conto che è arduo definire i confini tra queste due entità e, ancor di più, stabilire con certezza chi appartiene all’una o all’altra, in che misura e per quanto tempo. Quando giustapponiamo i due termini, in realtà intraprendiamo un percorso suscettibile di infinite varianti: ci possiamo infatti inoltrare su un ponte gettato tra due mondi, oppure andare a sbattere contro un muro che li separa o ancora ritrovarci su una strada che li mette in comunicazione. Possiamo anche scoprire l’opportunità di un intreccio fecondo dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro. Sì, perché ciascuno di noi – e anche degli altri – esiste in quanto essere-in-relazione: con quanti lo hanno preceduto, con chi gli è o è stato accanto, con il «prossimo», con coloro che ha avuto o avrà modo di incontrare nella vita, con il pensiero, la vita e le azioni di persone che non ha mai conosciuto personalmente e perfino con chi non conoscerà mai ma che contribuisce con la sua esistenza, le sue gioie e le sue sofferenze a quel mirabile corpo collettivo che è l’umanità.

 

È una consapevolezza, quella dell’intima connessione tra ciascuno di noi e gli altri, che va ridestata in questa nostra epoca in cui si è giunti con ragione a ipotizzare la «morte del prossimo» (Luigi Zoja), la scomparsa di colui che, letteralmente, è «più vicino». Se infatti veniamo quotidianamente sollecitati a una generica solidarietà con chi è lontano, siamo nel contempo spinti a non vedere chi ci è accanto e attende, prima ancora che un gesto di comunione, il semplice riconoscimento della propria esistenza. Comunichiamo a distanza, interagiamo in tempo reale, ci sentiamo connessi con una rete globale, ma distogliamo lo sguardo dall’altro che è accanto a noi, nella paura che il diverso cessi di restarci estraneo e inizi a inquietare la falsa sicurezza che regna tra i «simili».

 

Michel de Certeau, teologo e antropologo, instancabile viaggiatore attraverso paesi, culture e persone diverse, riteneva che il primo, fondamentale cammino di umanizzazione consistesse nell’avere «il gusto dell’altro» e definiva il cristiano come chi cerca di «far posto all’altro»: per lui l’altro è «l’irriducibile e colui senza il quale vivere non è più vivere». In questo senso possiamo declinare il rapporto tra noi e gli altri come una relazione dinamica in cui entra in gioco anche la dimensione temporale. Ovvero, oggi io sono quello che altri sono stati prima di me e, a loro volta, gli altri possono diventare quello che io sono o ero a un certo punto della mia vicenda umana…

 

Sì, nella dialettica tra noi e gli altri si gioca il difficile equilibrio, mai raggiunto pienamente, tra identità e convivenza, tra soggettività e comunità. In che modo non solo conservare ma innanzitutto riconoscere e coltivare la propria identità senza collocarla in rapporto dinamico con l’essere accanto, prossimi al diverso? E come convivere in un confronto civile tra persone, etnie, religioni, spiritualità, etiche, culture diverse senza aver chiara consapevolezza della propria identità e di come questa si sia venuta formando proprio attraverso successive, ininterrotte mescolanze con alterità che da lontane si fanno vicine, da estranee divengono familiari? È possibile, in una parola, sperimentare che in definitiva l’altro siamo noi o, per dirla con Paul Ricoeur, cogliere «sé come un altro»?

 

Sarebbero molti gli ambiti sui quali potremmo interrogarci, in merito a questa affascinante problematica dell’umanizzazione, ma io mi limito ad analizzarne tre:

 

    1.Incontrare l’altro per eccellenza, lo straniero.

 

    2.Incontrare l’altro per religione.

 

    3.Incontrare l’altro per etica.

 

 

1.    Incontrare l’altro per eccellenza, lo straniero

 

Oggi anche in Italia, come ormai in tutta l’Europa occidentale, ci troviamo di fronte a un consistente fenomeno immigratorio: milioni di uomini e donne appartenenti a mondi, etnie, culture, lingue, religioni diverse e fino a ieri di fatto estranee l’una all’altra, si trovano a vivere fianco a fianco tra loro e in mezzo a un paese e a una cultura «altri». Fenomeno certo non nuovo quello della migrazione – basterebbe pensare all’emigrazione italiana da quando esiste lo stato unitario fino a pochi decenni or sono – ma nuova è la convergenza simultanea di diversi flussi migratori verso l’Europa. Una complessità di situazioni che desta interrogativi, dal primordiale «Perché vengono da noi? Non possono restarsene nei loro paesi?» al più preoccupato «Che ne sarà del nostro paese, della nostra cultura, del nostro modo di vivere e di convivere?». 

 

Le risposte al primo tipo di domanda appaiono più facili, anche se sovente tendiamo a rimuoverle: da sempre, infatti, non è il pane che si muove verso i poveri, ma sono i poveri ad accorrere verso il pane; da sempre quando gli uomini hanno speranza di trovare una vita migliore altrove sono pronti a tentare l’avventura della migrazione, anche a costi umani altissimi. Molte sono le ragioni che spingono migliaia di individui a lasciare il proprio paese: miseria, carestie e conflitti che affliggono l’Africa, insicurezza e violenza che inducono minoranze osteggiate a cercare asilo altrove – si pensi ai cristiani del Medio Oriente –, guerre e lotte etniche che generano profughi e rifugiati… A questo si aggiunga anche il sogno di un mondo ricco di beni e di consumi senza limiti che i mezzi di comunicazione alimentano in popoli appena usciti da ristrettezze economiche e libertarie, come quelli dell’Europa «d’oltrecortina».

 

In un sapiente discorso al Parlamento europeo tenuto nel 2004, l’allora segretario generale dell’ONU Kofi Hannan ammoniva: 

 

I migranti hanno bisogno dell’Europa ma l’Europa ha bisogno dei migranti: un’Europa ripiegata su se stessa diventerebbe più meschina, più povera, più debole, più vecchia. Un’Europa aperta, invece, sarà più giusta, più forte, più ricca, più giovane se voi saprete governare l’immigrazione. I migranti sono una parte della soluzione e non una parte del problema: essi non devono diventare i capri espiatori di diversi malesseri della nostra società.

 

Oggi sono molti a riconoscere la verità di queste parole e del fatto che c’è bisogno degli stranieri per poter mantenere e aumentare il benessere, che c’è bisogno della loro presenza lavorativa e contributiva perché molti lavori non sono più assunti e svolti da noi; alcuni, invero meno numerosi, vedono in questa necessità anche una opportunità di arricchimento culturale.

 

Ma oltre che interrogativi dalle risposte complesse, la presenza dell’alterità dello straniero desta in noi anche timori e paure, perché lo straniero è il radicalmente altro, diverso da me, perché era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora me lo trovo accanto… È fisiologico che la presenza dello straniero ponga noi in questione: proprio perché ci manca un terreno comune su cui fondare un’intesa e la conoscenza del retroterra da cui proviene, ciò che nasce immediatamente e spontaneamente di fronte allo straniero è la paura. E la paura non va derisa né minimizzata, ma presa sul serio e fronteggiata per capirla e vincerla. Un dato fondamentale da tener presente è che nell’incontro con lo straniero non va messa in conto solo la «mia» paura, la paura di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la «sua» paura, la paura di chi arriva in un mondo estraneo, un mondo di cui conosce poco o nulla, un mondo che non gli offre alcuna protezione. Sì, la prima sensazione nel rapporto tra residente che accoglie e immigrato che arriva è la paura, anzi si tratta di due paure a confronto! E non basta invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzare la paura: essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell’altro è una sensazione paralizzante che va superata non rimuovendola bensì assumendola.

 

Due sono infatti i rischi nella nostra lotta contro la paura: negarne l’esistenza e quindi assolutizzare la differenza dell’altro, sacralizzare l’altro e rinunciare così alla propria cultura; oppure, al contrario, assolutizzare la propria identità intesa come esclusiva ed escludente, assumendo un atteggiamento difensivo dei propri valori fino a farne un presidio da difendere anche con la forza contro ogni minaccia reale o presunta all’identità culturale o religiosa. In entrambi i casi si dimentica che l’identità a livello sia personale sia comunitario e sociale si è formata storicamente e si rinnova quotidianamente nell’incontro, nel confronto, nella relazione con gli altri, i diversi, gli stranieri. L’identità infatti non è statica ma dinamica, in costante divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto costituito di molti fili che si sono intrecciati, spezzati, riannodati a più riprese nel corso della storia.

 

Quando il fantasma dell’identità porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell’omogeneità del sangue, della religione praticata, allora si apre la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all’esclusione dell’altro e si risolvono in un autismo sociale: una mancanza di ossigeno vitale contrabbandata come nicchia dorata ma che in realtà diviene un sistema asfittico, in uno spazio in cui l’unica pianta in grado di crescere è la barbarie.

 

Scriveva il grande filosofo Emmanuel Lévinas, che ha dedicato tutta l’esistenza alla ricerca sull’alterità: «Io sono nella sola misura in cui sono responsabile dell’altro». Ecco ciò che siamo chiamati a vivere anche nell’incontro con lo straniero al di là della paura e al cuore della nostra identità: incontrare l’altro non significa farsi un’immagine della sua situazione, ma assumersi una responsabilità senza attendersi reciprocità, fino all’ardua ma arricchente sfida di una relazione asimmetrica, disinteressata e gratuita. Solo così la vicenda dell’incontro con lo straniero si fa occasione di umanità per tutti.

 

 

2.    Incontrare l’altro per religione

 

Se ci spostiamo sull’ambito della religione, possiamo affermare che da quattordici secoli per il cristianesimo «l’altro» religioso per eccellenza è l’islam e viceversa. Va anche detto che da alcuni decenni ormai vi è in Italia una variegata presenza di immigrati musulmani: eppure sembra che di questa presenza e dei problemi da essa posta alla nostra società ci si sia accorti solo a partire dagli eventi dell’11 settembre 2001.

 

Se affrontiamo la questione più in profondità, possiamo cominciare col notare che il rapporto tra queste due fedi non è mai stato simmetrico. Perché? Proprio perché il Corano asserisce e proclama che il cristianesimo fa parte dell’islam, in quanto l’islam non solo si è innestato su ebraismo e cristianesimo, ma ne è la più autentica espressione: l’islam si considera dunque la continuazione autentica della rivelazione di Gesù «profeta dell’islam». Per i cristiani, invece, l’islam non si può inglobare nel cristianesimo, resta una realtà esterna ad esso, in un certo senso non necessaria ed estranea; resta un «enigma» con la sua pretesa di profezia successiva al pieno compimento della rivelazione di Dio in Gesù Cristo.

 

Inoltre, non solo la fede ma anche la storia ha portato a dividere profondamente le due religioni e a convincerle di essere l’una opposta all’altra, fino a identificare in essa il «totalmente altro» nel campo della fede, «l’altra presenza» religiosa nella storia. L’islam, infatti, si è dilatato rapidamente, conquistando le antiche terre della cristianità, le terre dei padri della chiesa d’oriente: Asia minore, Medio Oriente… In alcuni casi, come in Egitto e in Siria, molti cristiani hanno dapprima colto nell’islam soprattutto l’aspetto di un’attesa liberazione dall’oppressione bizantina e della fine delle guerre tra bizantini e persiani, poi, percependolo come una possibile forma di fede che garantiva la vita sociale, lo hanno abbracciato dimenticando la fede cristiana. Così l’islam, tra conquista armata e penetrazione socio-culturale, si è imposto riducendo i cristiani a piccole minoranze. Sono stati secoli nutriti di polemica teologica con rarissimi casi di dialogo in oriente, mentre in occidente l’islam è stato visto a lungo come «il nemico» che delimita i fines christianorum, i confini della cristianità, e nei confronti del quale si considerano innanzitutto le imprese e i conflitti armati.

 

Oggi i cristiani riescono a leggere nell’islam una profezia anti-idolatrica che ha portato la fede monoteista alla genti, ai pagani, ma quanti nella chiesa sono impegnati nel dialogo e nel confronto culturale sono ben consapevoli delle difficoltà dovute alla storia vissuta, alla non-contemporaneità tra paesi musulmani e occidente, alla presenza nel mondo islamico di fondamentalismi aggressivi che arrivano anche a usare la violenza e il terrorismo. Quale dialogo, allora? Certamente non si può sfuggire al problema posto a più riprese da Benedetto XVI: il dialogo che si nutre della «ragione» e che quindi sa rinunciare alla violenza. Un dialogo che rifiuta sia l’identificazione tra cristianesimo e occidente, sia quella tra islam e estremismi intolleranti e aggressivi; un dialogo che accetta e stimola il confronto sui temi che stanno a cuore a miliardi di uomini e di donne di ogni dove: la libertà di professare e di vivere la propria fede, la tolleranza, la laicità delle istituzioni politiche, il confronto che rifugge la violenza e il terrorismo, la capacità di rileggere insieme la storia, purificando e guarendo le memorie ferite dai torti subìti…

 

Un dialogo simile, che si nutre di ragione, che fa uso delle scienze umane e si declina nel rispetto dell’altro non è certo facile, ma è indispensabile se si vuole continuare ad abitare insieme questo mondo che, senza pace e giustizia, è destinato all’invivibilità. La grande sfida che attende i fautori del dialogo è dunque quella di evitare una lettura delle differenze come scontro tra il bene e il male, di rifuggire l’identificazione tra un islam astratto e l’incarnazione del male, di rifiutarsi di demonizzare l’altro. Per riuscire in questa impresa, ciascuno deve fare appello alla ragione di cui tutti sono muniti e che, nel suo fecondo intrecciarsi con i dati della rivelazione, ci riconduce sulle vie del pace e della fratellanza umana.

 

 

3.    Incontrare l’altro per etica: la spiritualità degli atei

 

Un terzo ambito in cui emerge con forza l’alterità è quello relativo all’etica. Si potrebbero affrontare molte questioni, alcune anche all’ordine del giorno, all’interno di questo campo assai visto. Io ho scelto di percorrere un sentiero forse per molti di voi desueto, connesso alla ricerca morale degli uomini e delle donne del nostro tempo: la spiritualità degli atei.

 

Nel contesto di conflittualità e polemiche dell’attuale confronto tra credenti e agnostici o atei, siamo lontani dallo spirito espresso da Paolo VI con parole ormai dimenticate: «Noi dedichiamo uno sforzo pastorale di riflessione per cercare di cogliere negli atei nell’intimo del loro pensiero i motivi del loro dubbio e della loro negazione di Dio». È vero che oggi l’ateismo militante non è più attestato come negli anni ‘60 del secolo scorso, ma l’orizzonte agnostico richiede in realtà lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse. Invece da una parte, quella dei credenti, le posizioni sono sovente difensive perché nutrite di paura e di vittimismo, mentre da parte di alcuni non cristiani si arriva a deridere la fede, dipingendola come fomentatrice di integralismo, intolleranza e violenza. Veementi attacchi anticristiani da una parte, dall’altra mancanza di ascolto e persino demonizzazione del «non credente», giudicato «incapace di moralità».

 

E così, qua e là echeggia a sproposito una parola di Dostoevskij: «Se Dio non esiste, tutto è permesso!», considerando chi non crede come persona priva di spiritualità e di morale. Ma allora, è praticabile un dialogo convinto, rispettoso, capace di essere anche fecondo? È possibile che i non credenti si confrontino con i cristiani sulle domande attorno al senso della vita? È possibile che il cammino di umanizzazione, essenziale per non cadere nella barbarie, sia percorso insieme? Affinché questo cammino si apra occorrono alcune urgenze che cerco di delineare.

 

Agnostici e atei non credono in Dio, ma sono consapevoli che invece le religioni che professano Dio fanno parte della storia umana, del mondo. Come essi non trovano ragioni per credere, altri invece le trovano e ne sono convinti: gli uni pensano che questo mondo basti loro, gli altri sono soddisfatti di avere la fede. Ma proprio questo fa dire che l’umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità. Spiritualità non intesa in stretto senso religioso, ma come vita interiore profonda, come fedeltà-impegno nelle vicende umane, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla dimensione estetica e alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Spiritualità, soprattutto, come antidoto al nichilismo che è lo scivolo verso la barbarie: purtroppo questo nichilismo viene sovente definito relativismo, finendo per confondere il linguaggio del confronto e portando all’incomprensione reciproca. Ed è lo stesso nichilismo che, paradossalmente, può assumere la forma del fanatismo in cui ci sono certezze assolute, dogmatismi, intolleranza che accecano fino a rendere una persona disposta a morire e a far morire.

 

No al nichilismo, dunque, ma allora emerge l’urgenza di riconoscere la presenza di una spiritualità, di una vita interiore anche negli atei e negli agnostici, capaci di mostrare che, se anche Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto: persone che sanno scegliere cosa fare in base a principi etici di cui l’uomo in quanto tale è capace. E la grande tradizione cattolica chiede ai cristiani di riconoscere che qualsiasi essere umano, proprio perché, secondo la nostra fede, è creato a immagine e somiglianza di Dio, è capax boni, capace di discernere tra bene e male in virtù di un indistruttibile sigillo posto nel suo cuore e della ragione di cui è dotato. I non credenti sono capaci di combattere l’orrore, la violenza, l’ingiustizia; sono capaci di riconoscere principî e valori, di formulare diritti umani, di perseguire un progresso sociale e politico attraverso un’autentica umanizzazione.

 

Si tratta, per tutti, di essere fedeli alla terra, vivendo e agendo umanamente, credendo all’amore, parola sì abusata oggi e sovente svuotata di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il «luogo» cui l’essere umano si sente chiamato. Credenti e non credenti non possono essere insensibili ad affermazioni che percorrono come un adagio i testi biblici e che sono stati ripresi dalla tradizione: «Solo l’amore è più forte della morte… Solo l’amore resterà per l’eternità…». Del resto la fede non sta nell’ordine del sapere e neppure in quello dell’acquisizione: si crede nella libertà, accogliendo un dono che non ci si può dare da sé. Analogamente gli atei, nell’ordine del sapere non possono dire «Dio non c’è»: è, infatti, un’affermazione che possono fare solo nell’ambito della convinzione.

 

Vorrei che noi cristiani potessimo ascoltare atei e agnostici, potessimo confrontarci con loro, senza inimicizie, soprattutto attraverso un confronto di ciò che in profondità ci muove nel nostro agire. Lo spirito dell’uomo è troppo importante perché lo si lasci nelle mani di fanatici e di intolleranti oppure di spiritualisti alla moda. In questo senso, credo fermamente che ci sia posto anche per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità perché non soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità definite una volta per tutte. È una spiritualità che si nutre dell’esperienza dell’interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte e con l’esperienza del limite; una spiritualità che conosce l’importanza della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare. È una spiritualità che si alimenta dell’alterità: va incontro agli altri, all’altro e resta aperta all’Altro se mai si rivelasse.

 

Ne La Peste, Camus scriveva: «Poter essere santi senza Dio è il solo problema concreto che io oggi conosco». Oggi potremmo parafrasare questa affermazione dicendo che il solo autentico problema è essere impegnati in una ricerca spirituale al fine di fare della vita umana un’opera d’arte, un cammino di piena umanizzazione. Sì, io resto testardamente convinto che, in quanto esseri umani, non siamo estranei gli uni agli altri e che siamo pertanto chiamati ad ascoltarci e a cercare insieme.

 

Conclusione. Una deontologia del dialogo con l’altro

 

In continuità con quanto appena detto, come ultima apertura di orizzonte vorrei abbozzare una sorta di deontologia del dialogo con l’altro, rispondendo a una semplice domanda: come percorrere i cammini del dialogo, della comunicazione con l’altro? 

 

    a.Il riconoscimento dell’alterità

 

Innanzitutto occorre riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di uomo, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza. Teoricamente questo riconoscimento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta paura, occorre mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: c’è infatti in noi un’attitudine che ripudia tutto ciò che è lontano da noi per cultura, morale, religione, estetica, costumi. Occorre dunque esercitarsi a desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e di pensare non sono i soli esistenti ma si può accettare di imparare, relativizzando i propri comportamenti. C’è un relativismo culturale che significa imparare la cultura degli altri senza misurarla sulla propria: questo atteggiamento è necessario in una relazione di alterità in cui si deve prendere il rischio di esporre la propria identità a ciò che non si è ancora… Nessuna dimenticanza della propria identità culturale, nessuna auto-colpevolizzazione, ma anche nessuna esclusione di ciò che è altro!

 

    b.L’ascolto

 

A partire da questo atteggiamento preliminare, diventa possibile mettersi in ascolto: attitudine ardua, ma attitudine essenziale quella di ascoltare una presenza, una chiamata che esige da ciascuno di noi una risposta, dunque sollecita la nostra responsabilità. L’ascolto – non lo si ripeterà mai abbastanza – non è un momento passivo della comunicazione, ma è atto creativo che instaura una con-fidenza quale con-fiducia tra i partner del dialogo. L’ascolto è un sì radicale all’esistenza dell’altro come tale: nell’ascolto le rispettive differenze perdono la loro assolutezza e quelli che sono dei limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso.

 

    c.Simpatia ed empatia

 

Nell’ascoltare l’altro occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano. Inutile negarlo, noi siamo abitati da pregiudizi connessi alle tipizzazioni presenti nei giudizi popolari comuni, ereditati dal passato e conseguenze della memoria collettiva. Si tratta quindi di modificare le immagini di noi stessi e dell’altro e di riflettere sui condizionamenti culturali, psicologici, religiosi cui siamo soggetti.

 

E quando si sospende il giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare all’altro con sym-pátheia, ossia con un’osservazione partecipe la quale accetti anche di non capire fino in fondo l’altro e tuttavia tenti di sentire-con lui. La simpatia decide poi anche dell’empatia, che non è lo slancio del cuore che ci spinge verso l’altro, bensì la capacità di metterci al posto suo, di comprenderlo dal suo interno; empatia che è manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, umanità condivisa.

 

    d.L’intercomprensione

 

Eccoci così al dialogo, esperienza di intercomprensione. È il dialogo che consente di passare non solo attraverso l’espressione di identità e differenze ma anche attraverso una condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri bensì per comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma un reciproco progresso, un avanzare insieme. Così nel dialogo avviene la contaminazione dei confini, avvengono le traversate nei territori sconosciuti, si aprono strade inesplorate.

 

    e.La responsabilità

 

Questo cammino sfocia nell’assumere su di sé la responsabilità dell’altro: incontrare in verità l’altro significa porsi come responsabile di lui senza attendersi reciprocità. Ciò che l’altro può fare nei miei confronti riguarda lui, ma la responsabilità verso di lui impegna radicalmente la mia persona. Dostoevskij ha avuto il coraggio di scrivere: «Ognuno di noi è responsabile di tutto e di tutti davanti a tutti, e io sono più responsabile degli altri». Ecco la vera via dell’umanizzazione, quella «responsabilità» per l’altro – ci ha insegnato Emmanuel Lévinas – che è «la struttura essenziale, primaria e fondamentale della soggettività».

 

È così che la vicenda dell’incontro con l’altro si fa via di umanizzazione, cammino verso un orizzonte comune, verso una speranza condivisa, verso una terra più abitabile.