La Repubblica - 04 gennaio 2021
di Enzo Bianchi
In questo tempo di Natale presepi, immagini e dipinti ci mettono sotto gli occhi la grotta di Betlemme: un bambino appena nato, la madre e il padre, alcuni pastori giunti a contemplare il gioioso evento di una nascita, un bue e un asino presso la mangiatoia, quasi a scaldare in quella fredda notte Gesù in essa deposto in fasce.
La presenza del bue e dell’asino, attestata dal vangelo dello pseudo Matteo, è sempre stata per me molto significativa, forse perché ho vissuto fino alla giovinezza in un paese di contadini e in un tempo, il dopoguerra, in cui la stalla era il luogo abituale per restare al caldo e passare la serata – per “vegliare”, si diceva – insieme ai vicini e agli amici. Ma se il bue non mi ispirava particolarmente, l’asino invece, più raro nella mia terra, mi incuriosiva, mi intrigava e suscitava in me grande simpatia. Soprattutto mi colpiva che il termine “asino”, oppure “somaro”, fosse allora un insulto lanciato dai maestri nei confronti degli alunni e ben presente nel linguaggio comune con sfumatura offensiva: dare a qualcuno dell’asino significava ritenerlo stupido, zotico, ignorante.
Non capivo perché quel povero animale fosse un simbolo tanto negativo: se era collocato nella grotta di Betlemme, non significava forse che aveva riconosciuto il suo Signore a differenza di tanti sapienti? Scoprii poi che fin dall’antichità l’asino era stato poco apprezzato e che già Cicerone insultava i suoi avversari con tale appellativo. Nel contempo venni anche a conoscere che nella Bibbia si parlava di un asino, quello del profeta Balaam, capace di ascoltare il Signore e di operare un discernimento visionario, mentre il suo padrone, profeta di mestiere, restava sordo e cieco: fatto non solo straordinario ma anche molto istruttivo!
Fin da allora, quando ne avevo la possibilità, mi avvicinavo a un asino, stavo del tempo con lui per accarezzarlo e ammirare la sua dolcezza, mansuetudine e umiltà. L’asino è un animale molto paziente, sa portare pesi considerevoli ed è anche capace di sopportare i più svariati maltrattamenti da parte di padroni insipienti e violenti. Così l’asino diventò, dopo il mio cane, l’animale a me più amico.
Un giorno, quando ormai insegnavo alla scuola media di Ivrea, durante la sagra degli asini decisi di comprarne uno e me lo portai a piedi fino a casa, alla comunità. Fu uno scandalo per molti vedere il professore che attraversava la città conducendo un asino… Lo chiamai Balaam e diventammo amici. La consuetudine con lui mi permise di conoscere sempre di più le sue virtù, che mi erano di lezione e ammonizione. Quando andavo per i campi mi seguiva e, se udiva la mia voce, mi chiamava dalla stalla, e quando mi vedeva dopo una lunga assenza ragliava di gioia. Era per me simbolo della dotta ignoranza, con grandi orecchie per ascoltare, occhi mitissimi per vedere, un passo lento e calmo ma saldo, una livrea umile da “eminenza grigia”, come a volte mi divertivo a chiamarlo.
All’improvviso una mattina della domenica delle Palme Balaam emise un lungo raglio e noi corremmo a vedere, ma lui, cadendo a terra, spirò. Da allora mi piace rivederlo ogni Natale nella grotta accanto al messia, sapendo che al messia piace venire su un asino.