Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

La comunità è luogo di conversione

12/01/2021 12:54

Fr. Marc de Pothuau

Notizie,

La comunità è luogo di conversione

Care amiche ed amici,abbiamo avuto una stagione monastica a cavallo dei due millenni molto feconda grazie anche al magistero monastico di questi Abati ...

Care amiche ed amici,

abbiamo avuto una stagione monastica a cavallo dei due millenni molto feconda grazie anche al magistero monastico di questi Abati/Abadesse e Priori/Priore: Benedetto Calati, André Louf, Denis Huerre, Cristiana Piccardo, Maria Ignazia Angelini, Michel Van Parys tutti/e mie maestri/e e amici/amiche, e poi uno sterile inverno. Ma oggi, ho raccolto la voce dell’Abate Marc di Hauterive in una sua conferenza–ammonizione indirizzata ai monaci, veramente sapiente e ricca di discernimento.

 

Per gentile dono dell’autore ve la proponiamo.

 

Fr. Marc de Pothuau OCist, Abate d’Hauterive

 

Introduzione

La rivitalizzazione delle nostre comunità presuppone una rivitalizzazione della ricezione personale e comunitaria del carisma. Questo è ciò che Dom Guerric mi ha spiegato nel messaggio che mi ha rivolto. Io gli risposi: “Quando il re d'Israele vide arrivare Naaman, il lebbroso, e lesse il messaggio del re d'Aram,  si strappò la veste e gridò: È una provocazione? (cfr. 2 Re 5) E io dico: "Sono forse in grado di sapere come si rivitalizza una comunità negli altri senza poterlo fare a casa mia?”.

In realtà, questa richiesta non era una provocazione perché non implicava che io conoscessi la risposta, ma solo che provocassi una riflessione sull'argomento. Nella mia esperienza, ho davvero materia di riflessione, senza per questo avere una conclusione o una ricetta miracolosa. Inoltre, sono felice di poter scambiare con altri superiori su questi temi cruciali.

Partiamo dalla Parola di Dio:

"A chi dunque paragonerò gli uomini di questa generazione, a chi sono simili? Sono simili a quei bambini che stando in piazza gridano gli uni agli altri:Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto! È venuto infatti Giovanni il Battista che non mangia pane e non beve vino, e voi dite: Ha un demonio. È venuto il Figlio dell'uomo che mangia e beve, e voi dite: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli". (Lc 7, 31-35)

 

Festa e penitenza?

 

Le nostre comunità sono luoghi di perdono e di festa, per citare il famoso libro di Jean Vanier? In questo passo, Gesù mette a confronto. Egli accentua la descrizione per farci cogliere ciò che percepisce della nostra realtà umana. A cosa somigliamo? A chi rischiamo di somigliare? Cosa possiamo fare perché le nostre comunità non assomiglino a raduni di vecchi scapoli amareggiati senza né feste né lacrime? Se ci sono molte feste e celebrazioni, se ci sono molte lacrime e dolori, si pone però la questione di sapere se queste feste o questi lutti diventino o meno veramente comunitari. Esprimono la vita che scorre e ci unisce? Stimiamo insieme ciò che fa la nostra vita, il suo mistero, la sua bellezza?

Il nostro lavoro spirituale, infatti, consiste nel recuperare questa stima di noi stessi, nel penetrare questo sguardo di Dio su di noi per percepire come ci guarda, quanto ci stima, personalmente e comunitariamente!

 

Giudizio

 

San Paolo invita i Romani: "Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi". (Rm 12, 15-16).

Notiamo proprio il finale: Non fidatevi del vostro giudizio! Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi! Dobbiamo rinnovare costantemente il nostro giudizio, trasformare il nostro modo di pensare: questo è il vero culto, l'offerta delle nostre persone", ha detto Paolo all'inizio di questo stesso capitolo 12 (v. 1 e 2). Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

La nostra vita consacrata, la nostra offerta intima, il nostro sacrificio spirituale consiste nel sacrificare il proprio modo di vedere, il proprio modo di pensare, nell'immolare questi ragionamenti su se stessi per rinnovarli conformandoli a ciò che piace a Dio. Solo così possiamo sposare la sua volontà. Questo è il vero culto ...

Non dobbiamo quindi affidarci al nostro giudizio, soprattutto quando ci porta a condannare gli altri e ci impedisce di unirci ai loro sentimenti, di piangere o di gioire con loro. Pensiamo al figlio maggiore che si rifiuta di partecipare alla festa celebrata per il ritorno del fratello (cf. Lc 15, 28); o a colui che dà per scontata la gioia del buon pastore che è pazzo di felicità e porta sulle spalle la sua pecora ritrovata (cf. Lc 15, 5). Noi trascuriamo, o peggio ancora, disprezziamo l'invito alla festa nuziale che il Signore ci ha dato, quella gioia ingenua di Dio che non ha altra intenzione che quella di riunire i suoi figli in un unico abbraccio. Facciamo fatica a credere che Dio ami la nostra vita al punto di volerla condividere con noi. Non possiamo immaginare quanto apprezzi la nostra vita! L'incapacità di percepire il nostro valore [...] è di per sé una terribile punizione, scrive A.-J Heschel (Chi è l'uomo, Milano 2005, p. 43).

 

Disarticolazione delle virtù

 

Torniamo a quel passaggio di San Luca dove Gesù parla di questa generazione. È il giudizio-accusa che impedisce ai ragazzi di lasciarsi commuovere. Se non ballano con chi pensa solo alla festa di nozze, è perché lo giudicano un mangione. E prima ancora diffidavano di quel posseduto che era Giovanni Battista il quale li invitava alle lacrime della penitenza.

Fortunatamente, la nostra generazione monastica non conosce più questa lotta delle osservanze che da anni caratterizza il rapporto tra i nostri ordini. Questa lotta ora ci sembra ridicola. Ma le lotte intracomunitarie sono però finite?

Non è questo il problema riscontrato nelle visite regolari? Quante volte sentiamo nelle comunità di fratelli o sorelle che esprimono giudizi severi sugli altri in nome di valori monastici violati o difesi? Esistono poi ideologie monastiche che ci permettono di congelare i clan e di giustificare il fatto che i fratelli non si incontrano più. Niente è più normale nella realtà, secondo me. In effetti, il disprezzo e la sfiducia nella nostra vita comunitaria sono come polvere in una stanza. La questione non è di essere sorpresi che sia ovunque, né di cercare il colpevole. Chi può essere accusato di aver lasciato che la polvere si depositasse? La domanda è piuttosto chi si occupava di pulire regolarmente la stanza. Non c'è da stupirsi: una comunità è invivibile se non coltiva un processo consapevole per contrattaccare la diffidenza e il disprezzo reciproco che inevitabilmente si instaura.

Le nostre comunità hanno questi strumenti, questi momenti di incontro per coltivare la fiducia e la stima reciproca?

Quando i valori monastici - eccellenti di per sé - si disarticolano, diventano tante armi di autodifesa, pietre per lapidare quelle del partito opposto. In nome di una liturgia attenta, non ascolto più coloro che sono sensibili alla testimonianza dell'umanità che la Regola (cfr. RB 53) ci chiede di dare ai nostri ospiti. In nome del silenzio, accuso i momenti di ascolto reciproco di chiacchiere. In nome di un'economia realistica, squalifico il necessario e timido tentativo di conversione ecologica. In nome di un senso di comunità, metto in ridicolo i sostenitori del ritorno al digiuno. La comunità diventa allora un campo di battaglia, o meglio una trincea, perché le linee si congelano abbastanza velocemente e escono allo scoperto raramente al di fuori dei momenti di decisioni importanti che diventano crisi serie. In nome dei valori tutti importanti, nella comunità si instaura un processo di progressivo isolamento e se una parte riesce a prendere il potere, l'isolamento diventa immediatamente un’esplosione con un'emorragia di quadri che può essere fatale.

Dal punto di vista individuale, le virtù disarticolate - cioè le virtù non orientate e finalizzate alla carità – sono dei vizi. Secondo me, queste virtù non solo sono impazzite, come diceva Chesterton ("sono impazzite, perchè sono isolate l'una dall'altra e perchè vagabondano tutte sole". Ortodossia), ma sono diventate dei veri e propri vizi! Vale a dire, forze non di apertura, di relazione e di accoglienza, ma di autodifesa, di autoreferenzialità, di strutture di isolamento, che fanno del cuore l'anticamera dell'inferno attraverso l'insensibilità e l'indurimento.

 

Immaturità delle persone e delle comunità

 

Cosa pensa Gesù di una vita comunitaria che non è altro che un lento e triste processo di insensibilità reciproca ? Testimonia personalità isolate l'una dall'altra che sono diventate incapaci di piangere con chi piange, di danzare con chi è nella gioia? La speranza è fuggita dagli incontri. Le persone si induriscono e si disintegrano internamente nella mormorazione permanente che non ha nulla a che fare con il silenzio, quel linguaggio del mondo a venire, come dicevano i Padri.

Questo processo comunitario di disintegrazione interiore è anche quello della progressiva immaturità e della regressione affettiva. Gesù li chiama bambini! Figli orgogliosi, così lontani dagli umili discepoli. Hanno molte idee su tutto e giudicano e misurano tutti. Spesso la loro immaturità emotiva ha trovato nello studio una sicurezza. Possono quindi essere carichi di diplomi e capaci di argomentazioni brillanti, temibili e abbaglianti.

La maturità corrisponde, in effetti, a questa capacità di stimare l'altro, di vedere la bellezza delle persone e delle situazioni. Ma la diffidenza e il disprezzo, questa polvere quotidiana e normale, provocano lentamente la nostra insensibilità e alla fine ci chiudono nell'immaturità. A meno che un processo comunitario, quello che San Benedetto chiama conversatio morum, non provochi la nostra crescita nella stima e nella fiducia reciproca che ci permetta di trasformare la nostra sensibilità, cioè il nostro modo di sentire, di reagire, di vivere. In altre parole: la nostra morale, i nostri costumi. La conversatio morum, questa conversione della nostra morale, è in effetti il processo di maturità che Benedetto ha istituito nella sua comunità: permette alle sensibilità di incontrarsi e correggersi reciprocamente per crescere insieme. La nostra morale il nostro modo di vivere sboccia per entrare nel modo di vivere di Colui che è la nostra vita, per scoprire insieme quei sentimenti del Figlio che egli vuole condividere con noi.

Chiariamo una cosa. La nostra maturità è questa capacità di diventare sempre più vulnerabili e sensibili agli altri. Una forza molto paradossale, quindi, poiché è sentita interiormente come una debolezza. Eppure spesso confondiamo il vizio con la debolezza. Il vizio è una forza orientata al male, cioè una forza che evita le relazioni, una forza di indurimento e di chiusura.

 

Carisma in attesa di valore aggiunto

 

Usiamo un'altra immagine. Nonostante il gran numero di doni che Dio ha dato a ciascuno, l'assenza della converstio morum come processo impedisce il valore aggiunto di questi carismi. Arriviamo alla domanda che è stata posta: come possiamo accogliere personalmente e comunitariamente il carisma in modo che rivitalizzi le nostre comunità?

Lo Spirito Santo opera attraverso la diversità dei doni dati a ciascuno in vista di tutto il corpo. (1Co 12, 4-7 et 11) : "Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune … Ma tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole".

Questa diversità, quindi, mira al bene di tutti manifestando la loro unità in Dio. Che tristezza vedere questi doni servire al reciproco indurimento! Tuttavia, possiamo porci la domanda: le ideologie non sarebbero sorte per giustificare i clan? In altre parole, non è forse vero che ci sono problemi relazionali alla radice delle idee incallite delle ideologie e non il contrario? Credo che in effetti qualsiasi durezza della ragione derivi da un trauma precedente. Non siamo di fronte alla questione della gallina e dell'uovo? Ma l'importante sarà piuttosto rispondere alla domanda che cerca di incanalare il processo, non di spiegarlo!

Il carisma rivitalizza solo se unifica. Richiede l’ integrazione. Il carisma di ciascuno è come una richiesta del carisma degli altri senza la quale diventa sterile. Sa che presto diventerà inutile a meno che non diventi un valore aggiunto. Un fratello in depressione dice a se stesso: "Sono inutile", perché ha bisogno di vedere la sua vita diventare feconda. In un certo senso, è giusto, non è niente senza gli altri. Ha bisogno di sentire che lui esiste per loro e loro esistono per lui.

Di fronte ad alcuni fratelli che si evitano accuratamente, mi agito interiormente dicendo a me stesso: quando si incontreranno? Allora mi rifugio nella pazienza di Dio, perché non serve accelerare le cose. D'altra parte, posso almeno cercare di farli smettere di evitarsi, sostenendo non so quali teorie. Infatti, avere grandi idee monastiche o teologiche da difendere permette a ciascuno di credersi forte. Mi sembra che si faccia un grande passo avanti quando si riconosce che si evitano solo per paura l'uno dell'altro. Il vizio viene smascherato e questo non è un piccolo cambiamento perché il processo sarà in grado di svilupparsi.

Insomma, la cosa è semplice: il nostro carisma cenobitico si nasconde nella vita comunitaria vissuta come incontro, scambio, condivisione e circolazione della vita.

Torniamo all'esperienza delle visite regolari. C'è qualcosa a volte di deprimente nell'ascoltare gli scrutini quando si tratta di una serie di discorsi disarticolati in cui ognuno si presenta e rappresenta gli altri. I Padri del deserto direbbero che questi non sono altro che logismoï-demoni, un discorso chiuso, il triste monologo delle ruminazioni. Inoltre, questi discorsi spesso non si tengono in presenza della comunità. Perché la comunità sa come vive colui che parla - cosa che a volte il visitatore non sa.

Le personalità devono imparare a parlare insieme: devono imparare insieme a parlare, cioè a scambiare e a lasciare che la propria visione delle cose si trasformi ascoltando gli altri. Il dialogo comunitario educa ogni persona ad allineare il proprio discorso alla propria vita.

Naturalmente non possiamo esprimere tutto davanti a tutti e la visita regolare serve proprio ad accompagnare queste difficoltà. Il ruolo dei visitatori sarà poi quello di ricollegare questi diversi racconti sparsi per ritrovare il filo delicato e prezioso della vita comunitaria. La carta (o mappa, a seconda del termine usato nei nostri rispettivi ordini) letta e approvata dal superiore e dalla sua comunità deve cercare di dare a tutti l'eco di questa narrazione comune. La narrazione comune permette di dirsi insieme, nel doppio senso dell'espressione: dire insieme e dirsi che stiamo bene insieme. Questo mi sembra davvero vitale. Ognuno dovrebbe essere in grado di sentire il proprio contributo fruttuoso, il proprio posto e il proprio destino. In altre parole, la visita regolare ha un sapore di incompletezza senza questo dialogo comunitario. Solo questo ci permette di apprezzare insieme questo mistero e questo dono che è la vita, questa vita che Dio chiama la comunità ad accogliere in questo istante della sua storia.

La visita regolare è quindi intesa come un modo per riaccordare lo strumento dell'ascolto comunitario. Lo scambio sulla carta di visita e poi la sua lettura regolare provocheranno questo aggiustamento reciproco che viene anche chiamato correzione. La visita è dunque una visita che rivela la bellezza della chiamata comunitaria e fa rivivere la conversazione di fondo, la conversazione dei costumi, che non è una chiacchierata, ma un ascolto profondo e una conversione reciproca per scoprire insieme ciò che è buono, ciò che è capace di piacere, ciò che è perfetto. Lungi dalle chiacchiere, in realtà, poiché Paolo dice che questa è per noi la vera adorazione (cfr. Rm 12,2)!

 

Sapienza e gusto della vita

 

Infine, torniamo a quest'ultima frase di Gesù, che è piuttosto oscura: "Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli". Leggiamo in Matteo (11,35) invece: "Ma alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere". La saggezza di Dio è stata riconosciuta come giusta attraverso ciò che fa. La saggezza non deve giustificarsi. Queste opere parlano per lei, e i suoi figli - quelli che le appartengono - le riconoscono, diciamo che le gustano. Lo preciso perché generalmente lo capiamo in una forma troppo razionale.

Tra Giovanni Battista e Gesù non c'è scelta da fare. Né possiamo rifiutare la gioia in nome della penitenza. Il loro rapporto è profondamente misterioso. Come si può distinguere tra chi è la voce e chi è la Parola? Tutti confondono l'uno e l'altro. Si prende Giovanni per il Messia e Gesù per Giovanni risorto. Eppure sono così diversi! E tuttavia non sono mai realmente in opposizione. Gesù ha riconosciuto la missione del Battista e si è unito ad essa. Inizia la sua predicazione con le sue stesse parole. Giovanni ha riconosciuto la missione unica di Gesù e la serve. Vuole scomparire in uno slancio di gioia. Certamente egli diminuisce, ma non senza aver preparato accuratamente la strada. Perché è Giovanni stesso, il Giovanni penitente, che inaugura il tema delle nozze tanto caro a Gesù "il festaiolo" evocando la sposa e lo sposo.

Gesù, da parte sua, non si sente obbligato dalle maniere di Giovanni. Vive il battesimo nell'immensa libertà del Padre. E quando evoca la sapienza, parla della sua esperienza del Padre: è come il gusto della sua gioia condivisa, del suo compiacimento. Gesù percepisce interiormente ciò che piace al Padre. Questo è il segreto del suo discernimento. Per Gesù, infatti, vedere il Padre è vedere cosa bisogna fare. Il Figlio non può fare nulla di se stesso, fa solo ciò che vede fare il Padre; ciò che il Padre fa, il Figlio fa allo stesso modo (Gv 5,19). Per vedere cosa bisogna fare per guidare il gregge senza perdere una sola pecora è proprio il discernimento, la discretio che l'abate deve mostrare secondo RB 64, 17-19: "negli stessi ordini sia previdente e riflessivo e, tanto se il suo comando riguarda il campo spirituale, quanto se si riferisce a un interesse temporale, proceda con discernimento e moderazione, tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che diceva (Gn 33,13): 'Se affaticherò troppo i miei greggi, moriranno tutti in un giorno'. Seguendo questo e altri esempi di quella discrezione che è la madre di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo da stimolare le generose aspirazioni dei forti, senza scoraggiare i deboli."

Nella sua unione con il Padre, Gesù è abitato da questa preoccupazione, così lontano dalla nostra cultura dello spreco: che non si perda nulla, che non si perda nessuno, che non si perda nessuno dei suoi piccoli, che non si perda nessuno di quelli che il Padre gli affida, che non si deluda nessuna gioia, che nessuna lacrima rimanga senza consolazione.

Se l'apprezzamento di Gesù per la sua generazione sembra severo, è perché la sua delusione è grande, grande come il suo immenso desiderio che condivide con il Padre: la nostra comunione. Gesù ama il nostro amore reciproco, ama vedere i suoi figli reagire l'uno all'altro. Ama vederci incontrare, aiutarci, amarci, stimarci, prendersi cura l'uno dell'altro. Egli ama le nostre feste quando tutti entrano nella stessa gioia e ama vederci confortarci l'un l'altro. Esulta con la sua pecora sulle spalle e vuole invitare tutto l'universo nella sua gioia, che rimane il mistero più profondo di tutta la realtà!

 

Gerusalemme di gioia

 

Ha espresso questa attesa con le sue lacrime per Gerusalemme, che è rimasta insensibile al suo messaggio di pace. La cantava mentre si avvicinava alla città santa con il Salmo 121 «Quale gioia, quando mi dissero: "Andremo alla casa del Signore.E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta." L’ha meditata attraverso i profeti e soprattutto Zaccaria. "Questa parola del Signore degli eserciti mi fu rivolta: 'Così dice il Signore degli eserciti: Sono acceso di grande gelosia per Sion, un grande ardore m'infiamma per lei. Dice il Signore: Tornerò a Sion e dimorerò in Gerusalemme. Gerusalemme sarà chiamata Città della fedeltà e il monte del Signore degli eserciti Monte santo' ". Dice il Signore degli eserciti: "Vecchi e vecchie siederanno ancora nelle piazze di Gerusalemme, ognuno con il bastone in mano per la loro longevità. Le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze". Dice il Signore degli eserciti: "Se questo sembra impossibile agli occhi del resto di questo popolo in quei giorni, sarà forse impossibile anche ai miei occhi? - dice il Signore degli eserciti -."(Zac 8, 1-6).

Una meraviglia ai miei occhi: Dio ha un sogno! Ne è commosso, non osa crederci. Dio è colto da una nostalgia indescrivibile di fronte a queste immagini di pace per il suo popolo, questa pace che riunisce generazioni, bambini e anziani (non li ha riuniti anche san Benedetto nel cuore geografico della sua Regola?) ,Sogna di vedere i fratelli incontrarsi, accettarsi, , accogliersi, rispettarsi, capirsi, rinvigorirsi, consolarsi, curarsi. Sogna di vederli suonare e cantare insieme! Questo è ciò che si agita nel cuore di Dio e che Cristo ha tradotto in sentimenti umani per noi per condividerli. Non è qui che sorge la nascita di Cîteaux, mentre i nostri padri si scambiavano i loro desideri, il loro progetto di vita? Il sentimento della loro infedeltà alla Santa Regola, diventando dolore condiviso, ha suscitato una speranza e una nuova gioia. Non erano ragazzini insensibili ed è piangendo insieme che sono entrati insieme in questa nostalgia di Dio.

 

Mistica comunitaria da riscoprire: la comunione di riconciliazione !

 

Che straordinaria scoperta è affermare che la comunione costituisce il carisma cenobitico! Perdonatemi di sfondare porte aperte. I nostri padri cistercensi hanno esaltato la bellezza della vita cenobitica. Erano profondamente consapevoli che la loro vita comunitaria era il luogo dell'esperienza della comunione trinitaria, ma non per questo erano idealisti sognatori.

Tendiamo a dimenticarcene. Almeno io stesso mi sorprendo nel constatare quanto sia innaturale per me collocare gli eventi della risurrezione di Cristo soprattutto alla luce della riconciliazione. Pensiamo alla Pentecoste come alla fiammata della comunione, ma comprendiamo quanto essa presupponga una riconciliazione molto profonda tra gli apostoli? Prima di portare la pace nel mondo e di essere mandati a perdonare i peccati la sera di Pasqua, i discepoli non dovevano dapprima vivere questo perdono dei debiti tra di loro, per vivere un capitolo delle colpe? Si erano sopportati male per tre anni, e gli eventi della morte di Cristo hanno confermato i peggiori pregiudizi che si covavano l'un l'altro: tradimento, rinnegamento, fuga generale!

Un capitolo delle colpe in cui Tommaso manca. Tanto che per una settimana il corpo di Cristo è rimasto inchiodato dal dubbio di uno solo. Immaginate la scena e quanto sembrano credibili questi apostoli di fronte alla sfrontatezza di Tommaso. Che coerenza nella loro testimonianza: inviati dal Cristo che si afferma risorto ad annunciare la pace al mondo, rimangono sempre chiusi nella stessa paura e nello stesso cenacolo! Il chiacchiericcio delle brave donne ha preso tutto il gruppo nello stesso delirio, egli pensa. Quanto deve essere stato pungente il cinico dubbio di Tommaso sulla fede nascente, sulla fragilità dei discepoli che cercavano di imparare a vivere di questa nuova gioia! Tommaso, come questa generazione di bambini, non piange e non ride. È congelato nella sua insensibilità e prima di mettere il dito nel posto dei chiodi e la mano nel fianco di Cristo, ferisce per una settimana questo corpo di Cristo che si è appena risvegliato al respiro del Risorto. Tommaso, tuttavia, non ha potuto impedire che questo perdono reciproco si facesse strada. E, se ha resistito nella sua incredulità, gli apostoli e le donne hanno potuto sopportarlo e così perdonarlo per la durezza delle sue parole e dei suoi atteggiamenti.

La Pasqua-Pentecoste giovannea è prima di tutto un'esperienza di riconciliazione reciproca e la remissione del debito proclamata al mondo è quella che i discepoli esercitano prima di tutto tra di loro. La Chiesa è la riconciliazione nella sua essenza; gli apostoli sono ministri di questa riconciliazione. In altre parole, è una comunità di conversione. Ci sono comunità emozionali. Attirano i giovani per una grande e bella serata. L'emozione delle donne si è finalmente impadronita degli apostoli che all'inizio avevano rifiutato tali sciocchezze (cfr Lc 11, 24).

Ma questa comunità di emozione diventa una comunità di convinzione. Possono allora confermarsi a vicenda nella loro comprensione dell'evento. La convinzione purifica, rettifica e rafforza l'emozione per darle la forma della confessione. La comunità di convinzione da sola non basta: è l'idea che impedisce la riflessione, che uccide gli incontri possibili e la creatività di ciascuno. La comunità di emozione da sola è effimera quanto l'emozione stessa. Le due, separatamente, hanno presto difficoltà a preservare le libertà individuali. La convinzione condivisa richiede presto il sacrificio per la causa, e l'emotività esaltata trabocca rapidamente nel ricatto emotivo. Insomma, la comunità che unisce le due in modo che ciascuno cresca, maturi e diventi sensibile e libero è la comunità della conversione come Benedetto le dà forma nella Regola: la conversatio morum.