di Angelo Casati
Raduno pensieri sparsi.
Non finisce di risuonare – e ci auguriamo non finisca, ma anzi prenda sempre più vigore – la parola di Gesù, non rintracciabile nei Vangeli ma autenticata da Paolo come parola di Gesù: “Si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35). C’è una gioia dunque – è parola affidabile – nel dare. Ma il detto di Gesù – per via di indebiti fraintendimenti – potrebbe evocare, come esperienza meno spirituale o evangelica, la gioia che nasce dal “ricevere”. Quasi fosse da guardare con un certo sospetto. Quasi vi fosse impigliata una sorta di cedimento ai sentimenti, quasi una “diminutio” dal punto di vista spirituale.
Ma come potremmo dimenticare la gioia che ci dà il volto dell’altro invaso di tenerezza e stupore per il dono che gli è stato fatto? Non sarà mai un volto spento ad innamorarti. E perché contenere la festa? La festa si fa visibile e brilla. Anche Dio sente gioia per la tua festa. Gode del suo popolo non nel momento della privazione, ma nel momento in cui lo vede gioire di ciò che ha ricevuto. Spirituali non siamo – a mio avviso – quando conteniamo la gioia ma quando, riconoscendo il dono, la celebriamo. Si affollano, mentre ne scrivo, parole e immagini delle scritture sacre, che vorrei rileggere, non dall’alto di una esegesi che non mi appartiene, ma dalla piccolezza di un lettore che prova sussulti e si commuove. Al cuore mi ritorna un passo del rotolo di Isaia dove Dio fa promessa per il futuro del suo popolo. Nel brano è come se assistessimo a una sorta di specchiamento, specchiamento della gioia: viene gioia a Dio dalla gioia che vede nei suoi figli. Leggo: “Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare, poiché creo Gerusalemme per la gioia, e il suo popolo per il gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo” (Is 65,17-19).
Qualcuno, carico d’anni come me, non ha di certo dimenticato la risposta del catechismo della sua fanciullezza alla domanda: “Per qual fine Dio ci ha creato?”. Era scritto e mandavamo a memoria: “Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell’altra in paradiso”.
Ci fa sussulto, sussulto al cuore, leggere nelle parole del profeta che in primo piano per Dio siamo noi e la nostra gioia: “Creo Gerusalemme per la gioia e il suo popolo per il gaudio. Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo”.
Mi si perdoni, forse possiamo dire che anche Dio è in cerca di gioia e la trova nella gioia di chi lo accoglie.
Troviamo scritto nel libro dell’Apocalisse: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (3,20). Dio bussa, anche lui in cerca – chi bussa cerca! – , in cerca di qualcuno che oda il bussare: la porta che si apre e la tavola che viene apparecchiata diventano la sua gioia, una gioia che si mescola a quella di chi ha aperto.
A volte al cuore mi ritorna il prato verde del vangelo e, sul prato, l’avventura di cinque pani d’orzo e due pesci, regalati da un ragazzo senza nome. Pani e pesci – quasi un niente! – ebbero l’avventura, nelle mani di Gesù, di sfamare i cinquemila. Il pane era passato di mano in mano e pure i pesci, per una sorta di condivisione La gente mangiava e si raccontava sul prato. Distribuzione avvenuta! Per di più con un avanzo. E io mi sorprendo a immaginare Gesù che quella scena se la beveva con gli occhi. Lui non defilato, ma immerso in quel banchetto a cielo aperto: quel brusio sul prato era per lui narrazione del regno di Dio. La festa sul prato si era accucciata nei sui occhi. Lui il primo a goderne.
Anche Dio è in cerca di gioia e la sua gioia sei tu quando ti fai accogliere. La festa è negli occhi di Dio quando la sala del convito, che contava purtroppo ancora alcuni vuoti, si fa piena. Ce lo ricorda la parabola di Gesù nel vangelo di Matteo (Mt 22,1-15). Il re che invita, invitando fa un regalo agli invitati, ma gli invitati che rispondono diventano a loro volta regalo per lui. Dio cerca la festa. Non fraintendere Dio. Non pensare che per onorarlo tu non debba cercare e onorare la festa.
Penso che non siano una bella notizia per Dio coloro che presumono di dare di sé l’immagine di chi dà e non invece anche quella di chi si fa accogliere. Loro danno dall’alto della loro superiorità. Spesso senza gioia vera, senza festa. Con un viso da “mortificazione”, e non con il viso in cui splenda la gioia dei “piccoli” che ricevono. Sono strutturati, ma mancano di eleganza. C’è una eleganza del vivere che dà giorni buoni, non solo a noi, ma anche agli altri. La loro è una spiritualità in cui sembra aver valore solo il peso: per loro le cose che valgono sono quelle che ti costano, mai e poi mai quelle che ti danno gioia.
Sarà perché sono di natura un bastiancontrario, ma devo confessare che, quando il nostro “Te Deum” veniva cantato nelle chiese in lingua latina, mi prendeva una sorta di tristezza quando si arrivava nel ringraziamento alle parole: “Tu ad liberandum suscepturus hominem non horruisti virginis uterum”. Ringraziare Dio perché al momento in cui desiderò salvare l’uomo non aborrì l’utero della Vergine! Mi chiedevo se il Figlio di Dio doveva sentire come un peso, quasi un orrore a cui benevolente assoggettarsi e di cui aver merito, l’accucciarsi in un grembo di donna. Diamo onore a Dio attribuendogli il superamento di un disagio per il suo contenimento in un utero o non invece attribuendogli la gioia di essere accolto nel piccolo grembo, spazio caldo e tenero di una ragazzina di Nazaret, di nome Maria? Perché – mi chiedo – non immaginare che Dio canti la sua gioia per il dono di un utero che gli si apre? La gioia nell’essere accolto? E non è forse vero che l’episodio che segue nel vangelo di Luca, quello della visitazione, va a raccontare gioia e non a senso unico? Ne sono una prova luminosa le due donne abbracciate sull’uscio di casa, sui monti di Giuda, una avanti negli anni, già gonfia di sei mesi, di nome Elisabetta, l’altra giovanissima, gonfia solo di alcuni giorni, di nome Maria da Nazaret? L’una e l’altra con in cuore il desiderio di raccontarsi a lungo nella casa il segreto che le abitava. E fu pentecoste sull’uscio di casa, pentecoste, cioè festa di pienezza in un abbraccio. Gli occhi abitati dalla gioia di essere accolte l’una dall’altra.
Non era forse questa la gioia di Gesù, accusato di mangiare e bere con peccatori e pubblicani? Non era la gioia che gli rimproveravano i cosiddetti uomini dello spirito, che morivano di rabbia per le voci di festa che venivano da quei pranzi sospettati? Lui ci si trovava bene. Nella casa era entrata la salvezza, proprio in quella casa dove si banchettava! Gli uomini dello spirito erano fermi al digiuno, con un pregiudizio sul godere, godere delle cose belle e buone della vita. Forse avevano cancellato dalla loro memoria le parole del libro del Qoelet: “Su, mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere. In ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo non manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte nella vita e nelle fatiche che sopporti sotto il sole” (Qo 9,7-9).
La donna che ami, il tuo pane, il tuo vino, le tue vesti E anche il profumo. E, a proposito di profumo, mi viene spontaneo immaginare quale gioia sia rimasta nel cuore di Gesù per le mani di donna che lo ungevano e lo profumavano! Lui che non solo riconobbe la tenerezza del gesto, ma si alzò sempre a difendere le donne che erano arrivate a tanto! Noi siamo arrivati a un sospetto, sospetto della donna e del profumo. Il profumo. Forse qualcuno di noi ha avuto l’occasione di leggere quanto ultimamente ha scritto sul profumo un uomo che per vocazione di vita coltiva la spiritualità, un monaco, del monastero di Bose, Enzo Bianchi. “In ebraico” scrive “il termine profumo – reach – richiama lo spirito, il soffio, il vento – ruach – anche perché il profumo si espande portato dal soffio, dal vento. Ora, tra questi effluvi ci sono innanzitutto i profumi che abbiamo conosciuto nell’infanzia e che ci accompagnano per tutta la vita: aromi legati ai cibi preparati da nostra madre o dalla nonna, profumi ‘di casa’. Più tardi abbiamo conosciuto i profumi dell’amore: quelli che noi stessi sceglievamo per profumarci, quelli della persona di cui eravamo innamorati, i profumi di un incontro atteso e preparato … Quale gioia riconoscere la presenza della persona amata attraverso il profumo, prima ancora di vederla! Era come se il profumo fosse l’araldo di una venuta desiderata. Non a caso nel Cantico dei cantici i profumi caratterizzano la stagione dell’amore, sigillano la presenza dei corpi degli amanti, il cui nome è così performativo da essere paragonato al profumo: ‘Profumo che si spande è il tuo nome!’” (in “Jesus”, agosto 2016). Posso sbagliarmi ma nella semplicità dell’accogliere un dono, nel riconoscerlo, nasce non solo la gioia, ma anche la festa. La festa, parte integrante della gioia. La festa che in certa misura sembra perdere la sua singolarità in tempi come i nostri in cui il pericolo è l’appiattimento dei giorni – uno uguale all’altro – quasi avessimo scordato – era un simbolo – il rito del vestito della festa. Al vestito della festa, luminoso nella sua semplicità, era legato un soffio di gioia. A volte anche i riti, come atti dovuti, corrono il rischio di perdere il sapore, il profumo della festa.
Perfetti nella loro solennità, una solennità a volte enfatica e algida. I riti e anche le omelie.
Osservando mi è capitato di scrivere: L’omelia la noia degli assenti. Il tuo racconto il brivido degli occhi e l’incolmabile stordente distanza.
Qualcosa del profumo della festa sembra ancora illuminare le teologie e i riti delle chiese latino-americane, dove il fiore e il canto non mancano mai e pervadono di bellezza le celebrazioni. La bellezza come fonte di gioia. Parlandone in un suo libro Elizabeth Johnson scrive: “Il senso della bellezza intrecciato con la verità e la bontà divina, rende Dio riconoscibile nell’immaginazione spirituale della comunità ispaniche. Il volto divino che si coglie nei simboli, nei riti, nella musica, nella danza, nelle drammatizzazioni e nelle storie popolari è semplicemente pervaso da una sensibilità estetica che tutto sovrasta, senza la quale parlare di Dio sarebbe una cosa fredda e lontana. (…) La loro teologia sottolinea la dimensione dell’essere umano come homo ludens, che gioca. Essere umani significa festeggiare e smettere di essere produttivi di merci da contare ed entrare in relazione con il significato profondo della vita. Ecco ciò che compie la fiesta. Attingendo alle risorse affettive, immaginative ed estetiche della comunità, essa fa ‘sentire’ l’essere una sola cosa con Dio, gli altri, il cosmo e se stessi”.
Mi si perdoni, ho divagato come mi succede. Non posso finire se non dicendo la commozione che mi prende ogni volta che nel vangelo leggo: “Io vi dico: ci sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte più che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. Io che ho bisogno di conversione un po’ mi inorgoglisco al pensiero che facendomi accogliere ho addirittura il “potere” di portare gioia nei cieli, davanti agli angeli di Dio. Piccola pecora in smarrimento come sono, pecora di cui il pastore va in cerca, povera moneta come sono, che una donna ha perduto, per cui accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finchè non la trova. Non sono che una povera pecora, una piccola moneta, ma mi seduce il pensiero, che dal paese della mia fragilità, nel farmi accogliere, mando festa in cielo. E forse anche sulla terra