Il “diario teologico” di Sequeri sulla pandemia invita a guardarci con gli occhi di Dio
La Stampa - Tuttolibri - 20 febbraio 2021
di Enzo Bianchi
Tra i cambiamenti silenziosi eppur determinanti imposti dalla pandemia ce n’è uno evidente a prima vista: ormai il volto dell’altro, di ogni altro che incontriamo, è visibile solo dagli occhi in su. La mascherina lo ha reso parziale e ci stiamo abituando a questo stato di cose (che speriamo ci insegni almeno qualcosa sul dialogo possibile tra gli occhi, caro ai vangeli e tanto praticato da Gesù). Per questo mi ha intrigato la copertina dell’ultimo libro del noto teologo milanese PierAngelo Sequeri: un particolare del famoso dipinto di Vermeer La ragazza con l’orecchino di perla, dal naso in su. Questo sguardo, tagliato ma ancora privo di mascherina, mi ha interrogato profondamente, in silenzio, spingendomi ad aprire le pagine del piccolo saggio che si nasconde dietro di esso: Lo sguardo oltre la mascherina, appunto. Una raccolta di articoli che si sbaglierebbe a etichettare come “instant book”.
Nella prima parte, infatti, l’autore raccoglie sì alcuni articoli pubblicati su Avvenire nell’aprile-marzo dello scorso anno, durante l’infuriare della prima ondata del Covid-19. Ma già a una prima lettura queste riflessioni alte e profonde, che esigono una lenta meditazione, si rivelano foriere di domande, in vista di un compito decisivo per la nostra convivenza umanizzata e umanizzante: quello di tornare ad avere “uno sguardo umano che cambia la vita – e persino la morte … Impariamo a nutrire, ogni giorno, sguardi buoni e diventeremo, ogni giorno, migliori. E anche più belli. La prima mossa, a presidio di una comune umanità felicemente ritrovata, sarà questa. Alleniamoci fin d’ora a guardarci tutti, di nuovo, con occhi che comunicano umanità vulnerabile e prossimità disponibile, al di sopra delle mascherine: anche se non ci siamo mai conosciuti, anche se ci sfioriamo a debita distanza. Era tanto che non lo facevamo”.
La seconda parte del libro completa questa intuizione di fondo, declinandola nei termini di misericordia, compassione e tenerezza: si tratta di articoli pubblicati sullo stesso quotidiano nel 2015/2016, in occasione dell’anno giubilare della misericordia, che però si rivelano sempre attuali perché, secondo l’azzeccato titolo di questa sezione, “La forza della compassione riapre la storia”. E davvero abbiamo un enorme bisogno di riaperture, interiori e interpersonali, prima ancora che tra le regioni del nostro affaticato paese.
La composizione di questo saggio ci permette di leggerlo anche in modo trasversale e discontinuo, raccogliendo qua e là spunti utili ad affrontare teologicamente, cioè umanamente, il nostro presente. È il caso del testo di apertura, scritto per l’occasione, che oltre a dare il tono all’intero libro, ci consente di cogliere in modo inedito, almeno stando alle categorie abituali, il mistero di Dio. Dopo essersi dedicato a una lettura socio-politica delle conseguenze del virus – affermando tra l’altro che “un radicale cambio di scenario è come sospeso nell’aria, ma il copione preciso è ancora tutto da scrivere” –, Sequeri comincia a salire di tono con queste parole: “La precarietà della nostra iniziazione alla vita è il varco che impone l’attesa del definitivo, tenera e struggente, provata e indomita, che accomuna l’umano: attesa di un oltre che la storia può soltanto sfiorare, ma del quale vive. Ecco che cosa farà ripartire la storia”.
E poi, soprattutto, quasi d’improvviso conclude così la sua riflessione, rilanciandola: “Le frasi fatte (‘tutto andrà bene’, ‘nulla sarà come prima’) sono riti apotropaici di elusione della domanda più concreta e cruciale: sarà la volta buona, per la conversione allo spirito di una cittadinanza fondata sulla condivisione e sulla compassione? … E la religione? E la fede? E il cristianesimo? Il linguaggio ecclesiastico è troppo distante dal comune uditore della Parola. Esiste un fondamentalismo che si semplifica la via proclamando il puro ritorno all’annuncio originario e si limita a ripetere ‘Signore, Signore!’, alla stregua di una formula magica. Ma non basta proclamare ‘il Cristo’ come fosse il mantra ideologico di una fede dichiarata che ci esonera dalla storia vissuta. In tal caso, il regno di Dio passa e noi rimaniamo con il cerino che ci si spegne in mano, e con lampade alle quali manca l’olio: invece di farne luce come dovremmo, per gli uomini e le donne sulla nostra strada. Le parabole e le guarigioni di Gesù annunciano la giustizia del regno di Dio, e l’emozionante incarnazione salvifica del Figlio, impiegando la lingua delle forme e delle forze elementari della vita sociale umana, che tutti conoscono e parlano”.
È quanto, con parole più umili, vado ripetendo da anni. Non è sufficiente riempirsi la bocca di slogan, pur nobili, come quello preso a prestito da Soloviev: “Ciò che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Gesù Cristo”. Il punto è: quale Gesù Cristo? Gesù è il Vangelo e il Vangelo è Gesù, volto di Dio, buona notizia che attende di essere rideclinata anche in termini di un nuovo sguardo umano e vitale, gli uni su e per gli altri. Perché, non dimentichiamolo, “Gesù non chiama a una nuova religione, ma alla vita” (Bonhoeffer).