La Repubblica - 28 giugno 2021
di Enzo Bianchi
In Russia nel XIII secolo furono abbandonati dei bambini e fu dato l’ordine di lasciarli vivere nel bosco, dove trovavano cibo ma senza rivolgere loro la parola, senza dare loro segni di affetto. Morirono tutti.
Sì, noi siamo umani perché ci viene rivolta la parola e perché parliamo. Per la maggior parte del tempo noi parliamo, e le parole ci servono per vivere insieme; ma interiormente ogni parola ha una risonanza, accende immagini e pensieri, forgia emozioni e sentimenti. Ogni espressione, quando raggiunge una persona, causa in chi la ascolta una vibrazione psicologica. Le parole sono come sassi scagliati in una pozza: anche il più piccolo tra di essi provoca un fremito della superficie dell’acqua.
Per questo occorre fare attenzione quando si parla. Innanzitutto bisogna evitare i toni apodittici, perentori, la parola che vuole imporsi: occorre rispettare la persona che ascolta e la sua dignità; evitare le affermazioni in cui risuonano “mai”, “sempre”, o i paragoni tra le persone; evitare le parole che esigono dagli altri, che ci fanno sembrare persone che danno ordini; evitare “si deve”, “bisogna”, perché queste espressioni tolgono la responsabilità agli altri, negano agli altri discernimento e libera decisione, soprattutto la scelta. Così la comunicazione si spoglia della possibile carica di aggressività e può avvenire nella mitezza.
Ma ci sono altri pericoli nel linguaggio, a cominciare dall’uso di un doppio linguaggio, di parole contrastanti con i segni o viceversa. Non si devono avere parole e comportamenti contraddittori, in particolare con i bambini, perché altrimenti si instilla in loro la sfiducia. Un altro pericolo è quello del parlare dell’altro parlando di noi stessi. È facile questa patologia che proietta sugli altri i nostri bisogni e i nostri sentimenti, peggio ancora i nostri progetti. L’altro è altro, e occorre rispetto anche nell’amore più forte e passionale. Il bisogno dell’altro e il desiderio di lui non devono accecare, perché l’altro resta sempre altro. L’altro deve accendere in me la responsabilità, deve darmi il desiderio di esercitarmi nella bontà e di aiutarlo a crescere nella bontà. È capitale, perché si deve stare insieme, tra amici o amanti, innanzitutto per questo: si sta insieme per farsi del bene, per diventare più buoni. L’uno ha la responsabilità di rendere più buono l’altro, sicché quando questo non accade, quando è contraddetto, e stare insieme significa diventare meno buoni o più cattivi, allora è necessario separarsi, a costo di rompere la relazione: altrimenti è l’inferno.
Infine, nel linguaggio occorre vigilare per non diventare negativi, lamentosi, sempre in collera o addirittura abitati dalla rabbia. Succede sovente alle persone iperattive, ma è una situazione che genera tristezza. Chi si lamenta sempre, vede poco alla volta gli altri allontanarsi da sé, perché nessuno di noi ama stare insieme a chi comunica solo pensieri di tristezza o di lamento.
Invece è cosa buona comunicare l’essenziale, semplificare tutto ciò che si ha da dire, dire tutto con calma e dolcezza, e raccontare, raccontare: mi sembra l’unica maniera per parlare senza lamentarsi, ma raccontando il mondo e ciò che si vive. Dirsi all’altro attraverso la narrazione è sempre un’opera di distacco da sé stessi, per poter trasmettere non la propria verità ma la bellezza e i significati possibili della vita: è un’opera di speranza e di fiducia nel mondo. Anche perché, come scriveva Gabo: “La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.