La Stampa - 14/02/2017
Intervista di Bruno Quaranta
E così Enzo Bianchi ha aggiornato la carta d’identità. Da priore a priore «emerito» di Bose, la comunità monastica che fondò sulla Serra d’Ivrea nel 1965. Quindi «ruminando», giorno dopo giorno, la Parola, al lume del Concilio, terminato lo stesso giorno in cui veniva posata la prima pietra della Fraternità. Monferrino, di Castel Boglione, classe 1943, capace di essere libero fino alla solitudine, com’è di certa schiatta piemontese, Enzo Bianchi, avvicinandosi i 75 anni, cede il testimone a Luciano Manicardi, ma non abdica, ché ancora non è l’ora del «nunc dimittis servum tuum», disponendosi a reggere diversamente il vincastro.
Un ricordo dell’8 dicembre 1965?
«Arrivai a Bose con due ragazze e due ragazzi che in breve si eclissarono. Eppure non mi arresi. Mi scortavano una speranza e una follia radicali».
Quale lettura biblica meditò allora?
«Avevo una radiolina. Ascoltai il discorso di Paolo VI che suggellava il Vaticano II».
I suoi Papi. Pacelli?
«Dai fedeli venerato. Lo incontrai nel 1951, a otto anni. Avevo vinto, nella mia diocesi, il concorso “Veritas”. Una figura ieratica, mi folgorò».
Giovanni XXIII?
«Il Papa del cuore. Di una statura ecumenica straordinaria».
E Paolo VI?
«Esemplare la sua vocazione a dialogare con il mondo. L’Ecclesiam suam è un’enciclica miliare».
E Giovanni Paolo II?
«Un confessore della fede. Aveva combattuto il comunismo. Concepiva la Chiesa come una forza militante. Il suo maggiore pregio? La determinazione con cui favorì il dialogo interreligioso. Volle che facessi parte della delegazione incaricata di consegnare ad Alessio II, patriarca di Mosca, l’icona della Madonna di Kazan. Il suo maggiore limite? La chiusura nella Chiesa, impermeabile qual era alla libertà. Nella Chiesa, invece, la libertà deve essere una costante, in forma di confronto e financo di conflitto».
Ratzinger: quale orma lascia?
«L’intelligenza della fede e la passione per la liturgia come fede celebrata. Per questo ho voluto ringraziarlo anche nel recente incontro con lui. Non dimentico certo che mi ha nominato esperto per due Sinodi dei Vescovi: il primo sulla Parola di Dio e l’altro sulla Nuova evangelizzazione».
Infine, Francesco.
«Con lui la libertà si è riconciliata con la Chiesa. Non dimenticando, di Bergoglio, la sensibilità verso gli ultimi e la tensione ecumenica, artefice di gesti sino a ieri inconcepibili».
Non ha mai rischiato di deragliare la Comunità di Bose?
«No, non nascondo le ore difficili, però mai tragiche. Così come è, felicemente, un a sé rispetto al corso delle cose generale. Dal ’65 a oggi il monachesimo ha subito un calo del 52%. La cultura dominante va in una diversa direzione: è individualistica, la società liquida è la sua dimensione».
Cruciale per lei, padre Pellegrino. Si è avviata la procedura di beatificazione del successore, Ballestrero. E il cardinale della Camminare insieme?
«Non credo che la sua salita agli altari sia una questione essenziale, strutturata com’è oggi la fabbrica dei santi. Di certo Pellegrino meriterebbe la precedenza. Fu di una statura intellettuale assoluta, maestro di Patristica, invitato ovunque a insegnare, nonché difensore della libertà, religiosa e di ricerca».
Un ricordo di padre Pellegrino?
«Mi chiamava dottor Bianchi. “Dottor Bianchi, scenda giù...”, ossia: venga a Torino. Una volta con speciale urgenza. Ero entrato nel mirino del Sant’Uffizio per una conferenza a Padova. Volle la registrazione, si occupò personalmente di confutare le obiezioni romane».
Nello spazio di mezzo secolo è cambiata la sua idea di Dio?
«Sicuramente. Negli anni della mia formazione Dio risaltava come un giudice, severo. Un volto che via via mi apparirà perverso. Gesù Cristo è l’unica narrazione di Dio. Non riuscirei a credere in Dio, senza Cristo».
Nel suo rapporto con Dio c’è stato un momento drammatico?
«Correva il 1985, scontai una grave crisi spirituale. Una lunga traversata nel buio. Uscitone scrissi sul mio diario: “Canterò la tua misericordia anche stando all’inferno”».
Qual è la tentazione del monaco?
«Chi si avvicina a Dio è più tentato di altri, ha una conoscenza del Male che altri non hanno».
Si è soliti intendere Enzo Bianchi come un «progressista ». C’è pure un Enzo Bianchi «conservatore»?
«Sì. Sono fedele, fedelissimo, alle virtù contadine. Il rispetto della parola data. La necessità della fatica e del lavoro. Sono moralmente granitico: in fatto di coerenza, di culto della legalità».
Lei è autore di numerosi libri. A quali è più legato?
«Pregare la parola, per cominciare. Lo scrissi a trent’anni. Tradotto in 35 lingue, ha - è un riconoscimento che mi onora - reintrodotto la lectio divina, la meditazione della Parola, nella Chiesa».
E poi?
«Il pane di ieri, un viaggio nelle mie radici, nella saggezza popolare, un comandamento in primis: “Fa’ il tuo dovere, crepa, ma va avanti”».
Quale la sua preghiera?
«La preghiera per eccellenza dei monaci sono i Salmi. Il mio Salmo è il 71: “Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, o Dio, non abbandonarmi...».
Pensa di trasferirsi a Gerusalemme, come Carlo Maria Martini?
«No, rimarrò a Bose. E di tanto in tanto farò visita alle altre nostre comunità, più piccole, dove meglio raccogliermi».
Avrà più tempo per i suoi hobby. Quale, in particolare?
«L’orto. Vicino al mio eremo vi è un fazzoletto di terra che coltivo personalmente. Pomodori, peperoni spagnoli, piccoli e non forti, insalata, cipolle: è deliziosa la soup à l’oignon...».
C’è un viaggio che vorrebbe fare?
«Che vorrei rifare. In Marocco. Ero giovane, vent’anni e dintorni. Vi trascorsi quaranta, indimenticabili giorni, coni Tuareg. Mi permisero di stare solo con me stesso. Nomade tra i nomadi»