Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

La dotta ignoranza dell’asino. Breve storia di un lungo pregiudizio

09/09/2021 01:00

Ernesto Ferrero

Testi di Amici 2021,

La dotta ignoranza dell’asino. Breve storia di un lungo pregiudizio

di Ernesto Ferrero

di Ernesto Ferrero

Non c’è animale che sia stato più vilipeso e maltrattato. Nei dizionari delle lingue europee, l’asino è registrato anche come sinonimo di persona stupida o inetta (Gran Bretagna), scortese e di scarso intendimento (Spagna), di spirito limitato e incapace di comprendere alcunché (Francia), ignorante, zotica, maleducata (il Tommaseo, il Vocabolario della Crusca, lo Zingarelli). Nella sua autobiografia, Vittorio Alfieri parla della “ignobile e gelida tardezza del passo d’asino”. Del ciuco (forse da “ciocco”, “ciucco”, “ciullo” o “ciolla”) si parla per la prima volta, ovviamente in termini spregiativi, nelle Rime di Michelangelo. Ma già Cicerone, in una delle sue fiammeggianti invettive oratorie, dava dell’asino ignorante a un suo oppositore.

 

Non era sempre andata così. Nell’antichità l’asino era apprezzato per la sobrietà dei consumi e la resistenza alle fatiche, indispensabile nei trasporti, nei lavori dei campi, ma anche in guerra, prima di venire soppiantato dal cavallo. Era arrivato nel Mediterraneo con i nomadi indoeuropei dell’Asia centrale. Già nel 1200 a.C. assicurava i commerci tra la Libia e Timbuctu. Nella Bibbia è la cavalcatura di patriarchi, re, principi, ricchi e potenti; dell’asina di Balaam si dice che sa vedere e ascoltare Signore assai meglio del suo padrone . Mosè si incammina verso l’Egitto sull’asino, e così Abramo. I settanta figli e nipoti di Abdon, giudice, cavalcano altrettanti asinelli.  Sempre nella Bibbia leggiamo che tra le maledizioni minacciate al popolo di Israele, se non si attiene ai precetti divini, c’è quella che gli verranno rubati gli asini.

 

Nei miti indiani, i fratelli Asvin, equivalenti di Castore e Polluce, cavalcano asini volanti. Quando l’Olimpo è assediato dai Giganti in rivolta, sono gli asini che li mettono in fuga con i loro ragli furiosi.  Omero paragona Aiace a un asino forte. E Sansone uccide mille nemici con una mascella d’asino. Gli dichiara il suo apprezzamento anche il Columella, autore del monumentale trattato De Re Rustica (I sec. d.C.) che ci informa minutamente sulle pratiche dell’agricoltura romana: è un animale frugale, prezioso per far girare le macine, si ammala di rado, sopporta le angherie.

 

Come simbolo di umiltà e mansuetudine, lo ritroviamo nel cristianesimo. Nella grotta di Betlemme, insieme al bue, riscalda il bambino appena nato, poi lo trasporta con Maria in Egitto, fa ingresso con lui a Gerusalemme. Anche per questo è caro a Francesco d’Assisi, che chiama il suo corpo “frate asino”, perché gli impone ogni sorta di fatiche e non protesta mai. Quando rinuncia ai suoi sogni di gloria militare per intraprendere l’arduo cammino della santità, vende il suo costoso cavallo e quando proprio non può andare a piedi, è al fidato asino che ricorre. Nel Seicento, san Giuseppe da Copertino, noto per le sue estasi mistiche, le levitazioni e le difficoltà nell’apprendimento, si autodefiniva “il frate più ignorante dell’ordine francescano”. Si presentava come Frate Asino, ma di lui si diceva che possedesse il dono della scienza infusa.

 

Tra i pesi che l’asino si porta dietro nei millenni c’è anche una fondamentale ambivalenza. Per gli Egizi è una temibile potenza infera. Per via dell’imponenza dei suoi organi genitali, gli si attribuisce un grande appetito sessuale, e per questo viene associato ai culti di Dioniso, Cileno, Priapo, che in origine era un asino antropomorfizzato (nel Trittico del diluvio anche Hyeronimus Bosch collegherà apertamente l’asino al diavolo, associandoli ai piaceri della carne).

 

Di questi culti possiamo cogliere l’eco in quello che è considerato il primo romanzo dell’antichità, Le metamorfosi di Apuleio (II sec. d.C.), anche noto con il titolo di L’asino d’oro coniato da Agostino. Lucio, il protagonista, è un appassionato cultore di arti magiche, agitato da una curiosità intellettuale che lo spinge a varie disavventure. In Tessaglia, terra di maghi, per gli intrighi della servetta di una ricca signora si trasforma in asino, ma conserva il raziocinio umano, espediente che consente all’autore di raccontare la stoltezza e la creduloneria degli uomini. Come dire che solo uscendo dalla natura umana se ne possono cogliere tutti i limiti. Per ritornare uomo, durante una festa in onore di Iside, di cui è adepto, mangia le rose che decoravano il sistro di un sacerdote e si consacra alla dea, entrando tra gli adepti del culto. Il suo è dunque un percorso di espiazione e di iniziazione.

 

La fortuna dell’asino esplode nelle arti e nella letteratura del Medioevo e del Rinascimento, da Giotto ad Ambrogio Lorenzetti, dal Beato Angelico a Piero della Francesca (nella cui Natività un asino un po’ maleducato distoglie il suo sguardo dal bambino e solleva in alto la testa in un raglio del tutto sconveniente, sul cui significato ancora ci si interroga), da Giovanni Bellini a Tiziano. Nella scultura romanica e gotica è frequente l’immagine satirica dell’asino che suona la lira, un archetipo che risale addirittura alla civiltà di Ur. Machiavelli gli dedica un poemetto in terza rima in cui racconta la propria metamorfosi in asino, non come degradazione, ma come ricupero di un contatto diretto con la natura, ricerca di un equilibrio perduto, contro le rigidezze del pensiero astratto. Nello shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate, Titania, regina delle fate, si innamora di Bottom il tessitore, cui il dispettoso folletto Puck ha dato una grossa testa d’asino. Nel Don Chisciotte, quando Sancho Panza ritorna a casa da un’avventura al seguito del suo bislacco padrone, la moglie per prima cosa gli chiede come stava l’asino che cavalcava (lui lo chiama “figlio delle mie budella”).

 

Non sempre gli asini accettano il loro triste destino di servitù e fatica. Nella fiaba dei Grimm, I musicanti di Brema, un asino, un cane, un gatto e un gallo, ormai vecchi, capiscono che i loro padroni vogliono sopprimerli:  sopravviveranno solo unendo le loro forze. Pinocchio si ritrova trasformato in ciuco con l’amico Lucignolo (un omaggio al Lucio di Apuleio?) perché a scuola non si applica e preferisce balocchi e divertimenti (ma è curioso che l’operoso somaro sia costretto a incarnare la svogliatezza degli scolari). Non mancano all’asino altri importanti risarcimenti. Nel 1878 viaggia Robert Louis Stevenson nelle Cevenne francesi in compagnia dell’asina Modestine, cui si legherà presto di una grata e affettuosa amicizia.  Nella Fattoria degli animali di Orwell tra gli animali che organizzano una rivolta contro la tirannia degli uomini c’è Beniamino, un asino dalla profonda intelligenza scettica, quasi un philosophe,  che impara a leggere. Nel classico film di Robert Bresson, Au Hazard Balthasar (1966)  il protagonista è un asino vittima della violenza umana, un capro espiatorio che assurge alla dignità di una figura cristologica.

 

Perché allora il benemerito asino è stato caricato di tanti simboli negativi? Questa la domanda cui lo storico Roberto Finzi risponde nel suo gustoso saggio, Asino caro, o della denigrazione della fatica (Bompiani, 2017). Secondo lui gli insulti sono il riflesso sociale del disprezzo per chi è povero. In questo l’asino è associato al contadino, al villico, cioè l’abitante della villa, la proprietà fondiaria, puntualmente rappresentato in arte come essere rozzo, deforme, grottesco, animalesco.

 

È probabilmente la contiguità con i contadini a svilire anche gli animali di cui si serve. Non è dunque un caso che i trovatori declamino: “Tali gli asini, tali i villani”. Per il buffone di corte che duella verbalmente con Bertoldo, asini e villani sono nati nella stessa epoca, sono fratelli, dunque disprezzabili. “Come il popolo è l’asino: utile, paziente e bastonato” scrive in pieno Ottocento Francesco Domenico Guerrazzi, che ci avverte: altro che pigro, poveretto, sono gli uomini che scansano le fatiche. Ma l’asino sconta anche la sua livrea dimessa, che è poi quella della vera virtù: non è sgargiante o appariscente, non colpisce la fantasia, non ha l’eleganza nervosa del cavallo. Nessuno si può identificare in un destino di sottomissione e fatica.

 

In questa altalenante e contraddittoria vicenda di utilizzi culturali, elogi e diffamazioni, l’asino può vantare un primato che altri animali gli possono difficilmente contendere. Uno dei massimi pensatori dell’Occidente europeo, Giordano Bruno, lo ha elevato a simbolo perfetto di quella coincidentia oppositorum cui mira tutto il suo sistema speculativo. Per lui l’asino incarna una serie di contrasti che si risolvono in superiore equilibrio: benefico/demoniaco, potente/umile, sapiente/ ignorante. Nel 1585 Bruno pubblica a Londra un dialogo morale, La Cabala del cavallo pegaseo con l’aggiunta dell’asino cillenico, che segue di tre anni quel Canto di Circe in cui compare per la prima volta la categoria dell’asinità.

 

Nuccio Ordine gli ha dedicato un saggio magistrale, La cabala dell’asino (nuova edizione accresciuta, La Nave di Teseo, 2017) in cui dimostra come attraverso un complesso gioco di suggestioni ermetiche Bruno riscatti l’asino dalle mortificazioni della favolistica e dai pregiudizi, per farne un simbolo di sapienza profonda, il titolare di virtù morali quali il coraggio, la pazienza, l’umiltà e il cuore puro: le sue grandi orecchie diventano emblema di una prodigiosa capacità di ascolto. Di qui parte la critica alle chiusure che hanno portato il cristianesimo ad arroccarsi in un rigido dogmatismo; ma anche agli scettici che negano ogni possibilità di conoscere il mondo, a tutti coloro che impediscono il libero sviluppo di una conoscenza in libero e continuo divenire.

 

Esistono insomma una asinità negativa (arroganza, ignoranza, pedanteria)  e una positiva (fatica, tolleranza, consapevolezza dei propri limiti), da ricomporre in una scienza universale capace di ricostruire il disegno dell’armonia che regge i mondi infiniti. La “dotta ignoranza” dell’asino è l’umiltà di chi sa di non sapere e tuttavia persegue in umiltà le propria ricerca.

 

Profetico, vaticinante, ispirato, l’asino si fa portavoce di una dottrina della trasmigrazione delle anime legata all’eternità del principio vitale, all’unità indissolubile di spirito e materia.

 

Alla natura divina e bestiale dell’asino corrisponde l’immagine dell’uomo che deve tentare una mediazione tra bestialità e divinità. Bruno si serve dell’asino per parlarci di una verità fluida, flessibile, aperta, in continua evoluzione, che noi oggi avvertiamo particolarmente vicina alla nostra sensibilità.

 

Il tormentato filosofo di Nola apprezzerebbe i versi che un poeta contemporaneo, il palestinese Mahmoud Darwish, ha dedicato al suo e nostro caro asino: “Il migliore spettatore sulla scena mondiale è l’asino./ Un animale pacifico e saggio che affetta stupidità,/ ma egli è paziente e più intelligente di noi/ nel modo distaccato e calmo con cui contempla/ lo svolgersi del progresso e della storia./ Gli eserciti gli marciano accanto e le bandiere cambiano,/ come gli uccelli dipinti su di esse./ E intanto lui guarda indifferente”.