di Giannino Piana
La figura del prete è divenuta oggi anacronistica. Sono molti i fattori che hanno concorso (e concorrono) a provocare tale situazione. Quello principale è senz’altro costituito dall’avanzare del fenomeno della secolarizzazione (trasformatosi in molti casi in secolarismo) che rende evanescente ogni sentimento religioso. Dio non è contestato – come avveniva con l’ateismo ottocentesco –; è, più semplicemente, ignorato. Di Lui non rimangono che sterili vestigia di un passato in cui a prevalere, secondo molti, era una visione mitica della realtà del mondo e della vita – quella neoilluminista – radicalmente sconfessata da una forma di razionalità onnicomprensiva e oggi soprattutto dai successi della scienza e della tecnologia, che assumono carattere di sacralità e di assolutezza, fino a configurarsi come la “nuova religione”.
La percezione dell’inutilità del ruolo
Nel contesto di questa cultura il prete appare come il portatore di una visione arcaica dell’esistenza destituita di ogni credibilità. Le indagini sociologiche sulla “religiosità” degli italiani confermano la verità di questo assunto. Il mondo giovanile, che rappresenta il futuro della nostra società, non è soltanto del tutto assente dalla pratica religiosa, ma non è neppure più scalfito dalla domanda su Dio e sull’al di là. I giovani vivono, in larga maggioranza, “come se Dio esistesse”, e non avvertono in questo alcun senso di malessere. La loro vita ha altri riferimenti e la domanda di senso, quando si pone, riceve risposte sufficienti nell’adesione a criteri valoriali (o almeno ritenuti tali) di ordine mondano. Non vi è dunque spazio per la logica evangelica, che si presenta come alternativa e controcorrente, e il suo annuncio, che ha nel prete il proprio più diretto messaggero, rischia di cadere totalmente nel vuoto. La giusta rivendicazione dell’autonomia delle realtà terrestri, fatta peraltro propria anche dalla chiesa con la celebrazione del Vaticano II, è sempre più interpretata in termini di radicale autosufficienza, con il rifiuto di qualsiasi riferimento religioso (e spesso persino etico) in nome dell’emancipazione dell’uomo e della sua liberazione da ogni forma di alienazione, compresa quella derivante dalla adesione alla religione.
Un uomo alla deriva della solitudine
Questa situazione descritta nelle tinte più fosche, non tenendo conto della presenza di fenomeni positivi, sia pure minoritari, che meritano in ogni caso attenzione, costituisce tuttavia, nell’insieme, lo scenario prevalente sul quale l’attività del prete deve esercitarsi. Ad avere un peso decisivo in questi cambiamenti non è soltanto la perdita di ogni ruolo sociale di cui in passato il prete godeva, ma è la distanza che egli avverte essersi creata tra sé e la gente, la quale non ha soltanto abbandonato la tradizionale pratica di partecipazione alla messa domenicale, e – sia pure con minore intensità – anche il ricorso ai riti che in passato scandivano i momenti più significativi dell’esistenza dalla nascita alla morte. Si assiste infatti a una consistente (e continua) diminuzione dei battesimi, delle prime comunioni, delle cresime e dei matrimoni (per non dire della confessione che appare ormai una pratica fuori uso). Un vero crollo della pratica religiosa rimasta retaggio della popolazione anziana che va progressivamente scomparendo. Tutto questo provoca nei prete un inevitabile senso di frustrazione accentuato da uno stato di solitudine, che trova sbocco in molti casi nella ricerca di compensazioni affettive vissute nella clandestinità, e dunque a loro volta frustranti, perché frutto di accomodamenti che avvengono nel segno della doppiezza; o, inversamente, in forme di arroccamento, con l’assunzione di un atteggiamento di rifiuto di tutto ciò che è stato prodotto dalla modernità; rifiuto che si traduce nel dedicarsi a pratiche sacro-rituali – si pensi all’enfasi data a forme esteriori nella celebrazione liturgica - o provoca il ritorno ad abitudini del passato - è sintomatico il ritorno all’uso della talare - che, oltre ad offrire una apparente sicurezza, esprimono l’esplicita volontà di non contaminarsi con il modo considerato fonte di pericolo.
C’è ancora spazio per la missione del prete?
Da una parte, ad essere messa in discussione è la preoccupazione di una azione sacramentale diffusa che raggiunga il più elevato numero di persone - Dio non sa che farsene, osservano i profeti, di un culto materiale che non si accompagna all’esercizio della giustizia, che non ha cioè riscontro nelle opzioni della vita quotidiana - per fare spazio ad un’opera di evangelizzazione finalizzata a raggiungere un numero magari ristretto di persone che si impegnano a fare concretamente propria la logica evangelica. Dall’altra, obbliga a ripensare l’esercizio del ruolo sacerdotale, abbandonando atti di supplenza divenuti spesso esorbitanti per lasciarne la gestione alla responsabilità dei laici e concentrare l’attenzione su ciò che è davvero specifico ed essenziale, cioè il servizio all’edificazione della comunità nella prospettiva di una comunione che ha il suo momento più alto nella celebrazione eucaristica. Questo implica come condizione prioritaria il pieno inserimento del prete nella vita della comunità. Il che può verificarsi soltanto laddove la scelta della persona chiamata ad esercitare tale ministero avviene all’interno della comunità e da parte di essa. L’essere catapultati dall’esterno – come ancor oggi normalmente avviene – rende difficile l’inserimento e rischia di far percepire il prete come un “corpo estraneo” imposto dall’alto, dunque non pienamente inserito nel contesto ambientale in cui è destinato ad operare. Inoltre tale inserimento può soprattutto verificarsi soltanto laddove il criterio che presiede alla scelta è la presenza come requisito fondamentale della capacità di creare comunità, cioè di intessere e consolidare rapporti vicendevoli, superando le resistenze negative e sviluppando forme di solidarietà e di fraternità, che favoriscano la partecipazione e la cooperazione.
Una situazione ancora ambigua
I preti sono oggi in linea con questa visione, peraltro suggerita, nelle sue linee essenziali, dall’ecclesiologia del Vaticano II? L’iter formativo proposto corrisponde adeguatamente all’esercizio dei compiti cui si è fatto riferimento? E, infine, quale progetto pastorale viene loro prospettato dalle chiese locali? La risposta a questi quesiti non è facile. La prima difficoltà è legata all’identikit di coloro che accedono al presbiterato. La riduzione sempre più consistente da noi (e più in generale in Occidente) del numero dei candidati a tale ministero si accompagna a un mutamento piuttosto radicale della figura di coloro che entrano in Seminario. La scomparsa, quasi ovunque, del Seminario minore ha comportato (e comporta) una mutazione della tipologia dei seminaristi, che sono in larga misura giovani in adolescenza avanzata, diplomati o laureati, che provengono da precedenti esperienze ecclesiali fatte in movimenti e/o in associazioni, e che hanno perciò già compiuto un itinerario formativo e spirituale. A questo si deve aggiungere - e non è cosa di poco conto - che, negli ultimi decenni, al numero sempre più esiguo di seminaristi italiani fa riscontro una costante crescita di seminaristi stranieri, provenienti in particolare dal Terzo Mondo - Africa, America Latina e Paesi dell’Est europeo - e dunque con visioni culturali diverse che si riflettono anche nell’idea della missione della chiesa e dell’esercizio del ministero presbiterale. Nonostante un certo rinnovamento dei seminari avvenuto nel post-concilio, sia sul piano culturale che spirituale, le difficoltà segnalate persistono. Non è infatti infrequente che si assista - come già si è ricordato - a ritorni involutivi e a rigurgiti integralisti, all’assunzione cioè di atteggiamenti difensivi e di chiusura spesso motivati da una fragilità psicologica, che induce a ricercare appoggi esteriori per la tutela della propria identità.
Le priorità di papa Francesco
La estrema fluidità della situazione attuale - la liquidità cui allude Bauman si verifica anche su questo piano - rende impossibile prefigurare quale sarà la fisionomia del prete negli anni che verranno. Le osservazioni fatte non sembrano fare spazio ad un grande ottimismo. Più agevole è la delineazione di come tale fisionomia dovrebbe essere, dei tratti che la dovrebbero qualificare. L’enucleazione di questi tratti è stata in questi anni di pontificato una delle maggiori preoccupazioni di papa Francesco. Egli è più volte intervenuto ad indicare l’identitik del presbitero, mettendone di volta in volta aspetti diversi e complementari. Tre sono, al riguardo, le priorità messe in evidenza dal pontefice. La prima è la capacità di immedesimarsi nelle situazioni esistenziali della gente, condividendone le gioie e le fatiche quotidiane – papa Francesco sottolinea l’importanza di “sentire l’odore delle pecore” – e divenendo in tal modo partecipi del mistero dell’incarnazione. La seconda priorità è costituita dalla scelta della povertà come sobrietà di vita e come rinuncia ad ogni tentazione di potere, così da conquistare quella libertà interiore, che consente di diventare pienamente solidali con il mondo dei poveri e di impegnarsi per la loro liberazione. La terza priorità è, infine, il ricupero di una spiritualità autentica, non formale o devozionale, ma connotata da una forte tensione mistica, capace di interpretare il bisogno di trascendenza che alberga anche oggi nel cuore di molti e di diventare in tal modo testimoni credibili del mistero di Dio. Sono queste le condizioni preliminari, che vanno poste alla base dell’esercizio del proprio ministero, e che adempiute danno efficacia all’azione pastorale, alla capacità cioè di rendere trasparente la novità e la bellezza del messaggio evangelico.