Nel suo ultimo libro Cosa c’è di là (Il Mulino) innalza un grande inno alla vita e all’amore. È molto più di un testamento spirituale
Vita Pastorale - Marzo 2023
Intervista a Enzo Bianchi di Chiara Genisio
Semplicemente “fratel Enzo”, così desidera essere chiamato Enzo Bianchi. Alla vigilia dei suoi ottant’anni si sta preparando a traslocare a“ Casa della Madia”ad Albiano,un piccolo paese a una cinquantina di chilometri da Torino, per vivere in fraternità con poche persone, un luogo di incontro, di sororità, una tavola approntata per la condivisione e lo scambio delle parole, degli affetti e della speranza. Dove ci sarà anche un orto, proprio come ora nella casa in cui vive alle pendici della collina torinese.
Qui cura con passione e dedizione, ogni giorno, un piccolo appezzamento, i cui frutti condivide con i suoi vicini. Ha piantato semi raccolti nei tanti viaggi compiuti, negli anni, in giro per il mondo.
La sua passione per l’orto, che non l’ha mai abbandonato, lo ha portato a scrivere nel suo ultimo libro Cosa c’è di là. Innoalla vita (Il Mulino), che quando ha acquistato nel Monferrato, a Castel Boglione suo luogo natale, un “fazzoletto di terra dove essere seppellito”, ha espresso la volontà che vengano seminati il rosmarino, l’alloro, la maggiorana, le piante che lui ama molto. Questo suo ultimo libro rappresenta un grande inno alla vita e all’amore.
Molto più di un testamento spirituale; come lui stesso scrive, la ragione di questo testo è «non rimuovere ma vivere ciò che fa parte della vita e cercare di intravedere restando saldi ciò che è invisibile, ciò che c’è nell’aldilà, ascoltando le parole cristiane».
Che cosa significa per fratel Enzo l’amore?
«Per la mia esperienza è stato soprattutto un amore passivo, un amore ricevuto. Non è tanto un sentimento di cui io mi senta soggetto, nella mia vita ho sempre ricevuto tantissimo amore. Mi sono trovato solo alla morte di mia madre a otto anni con mio padre, senza fratelli o parenti e due donne, con cui non avevamo alcuna parentela, semplicemente erano nel paese, si sono prese cura di me, mi han fatto più che da madre. Mi hanno aiutato a crescere, mi hanno sostenuto negli studi fino all’università. E poi ho sempre vissuto attorniato da persone che mi hanno amato. Sono sempre stato accompagnato dall’amore e questo mi ha fatto sentire che ero amato. E, alla fine, ciò significa che ero amato da Dio. Ho provato questo grande amore per Gesù Cristo, più che per Dio, che è sempre stato una specie di presenza costante nella mia vita. Compagnia inseparabile, riferimento essenziale. Tutte le volte che sono andato a leggere nei Vangeli, ciò che mi ha sempre colpito è stato soprattutto questa capacità che Gesù ha avuto di amare fino alla fine, fino all’estremo. Al di là del risultato. Al di là di essere poi un uomo tradito,rifiutato,addirittura condannato. Ma lui ha saputo vivere questo e io ho sempre percepito che la risurrezione, questa vittoria sulla morte, era una vittoria non tanto sua, ma di lui che ha vissuto l’amore, o dell’amore sulla morte. Questo mi ha fatto sempre essere attento e percepire che se c’era qualche cosa che mi dava senso era l’amore».
È questo sentimento di amore che l’ha spinta a fondare nel 1965 la Comunità di Bose?
«Sì. È quello che mi ha spinto giovanissimo a iniziare una vita comunitaria che mi sembrava il luogo dell’amore più gratuito, più intenso possibile, soprattutto una comunità monastica. Ed è per questo che ho sempre voluto una comunità che non fosse separata dal mondo, dagli uomini, ma che avesse una speciale comunicazione costante con gli altri: i poveri, ma anche quelli che non sono cristiani, che non sono cattolici, religiosi. Insomma, l’umanità. Questo è sempre stato per me il filo rosso, quello che dà unità a una giornata dopo l’altra. Le domande che mi pongo sempre sono: sono riuscito ad amare qualcuno oggi? Son riuscito a portare un po’ di fiducia? Sono riuscito nell’amore a togliere un po’ di sofferenza agli altri? Questo è l’unico esame di coscienza che io mi faccio alla sera, e sono le uniche domande che mi convincerebbero che ho vissuto bene o che ho vissuto male».
Lo ha sempre fatto, oppure è un’attenzione che ha avuto solo negli ultimi anni?
«L’ho sempre fatto. Certamente ora che sono anziano mi viene più in mente il debito e la gratitudine verso mia madre e verso le due donne che mi hanno aiutato a crescere».
Lei ha scritto molto, ci sono degli autori, che più di altri l’hanno ispirata?
«Bonhoeffer mi ha aiutato nella mia fede e nella mia postura di credente e cristiano. E non c’è nessun altro che possa dire abbia rappresentato così tanto per me. La mia formazione è indubbiamente classica con lo studio dei Padri della Chiesa. A tredici anni ho iniziato a leggere san Basilio, mi avevano regalato le sue regole stampate a Grottaferrata, conservo ancora il libro. Un Padre della Chiesa straordinario, un altro che sento compagno inseparabile nella mia vita».
Forse è stato anche lei un ispiratore per altri...
«(Sorride). Non saprei...»
Ha in programma un nuovo libro?
«Vorrei ancora scrivere, e ci terrei molto – anche se esito– qualcosa su Gesù. Sono anni che prendo appunti e scrivo; non si tratterebbe della storia, ma di arrivare al nucleo incandescente su cosa c’è veramente di Gesù. Non parole di vita, ma Gesù che è vita».
Lei ha affermato che guardando oggi al suo passato forse lavorerebbe di meno e contemplerebbe di più. Che cosa vuole dire?
«Costruire una comunità richiede tante energie; mi domando a volte come sono riuscito, perché durante il mio priorato da nessuno siamo riusciti a essere oltre novanta a Bose. Questo mi ha richiesto molte energie, giorno e notte. Per la comunità e per le persone che ho sempre seguito individualmente. La situazione di povertà in cui vivevamo mi ha portato a lavorare parecchio, ho dovuto scrivere tanto in quotidiani, libri, riviste. Se tornassi indietro certamente lavorerei meno. Penso che dedicherei più tempo proprio a contemplare, a stare in pace, a non dover sempre avere delle scadenze. L’unica ragione per cui ho dato le dimissioni nel 2017 – che avrei potuto non dare e continuare – era proprio il desiderio di aver un tempo, prima di morire, di grande pace e di non attività. Tanto è vero che abitavo in una casa in affitto sulla costa ligure, più che a Bose.Non avevo nessuno impegno e potevo stare in questa casa isolata sul mare dal mattino alla sera, dove poter leggere, pensare, ascoltare musica, passeggiare, guardare il mare, anche senza incontrare molta gente. Era un grande desiderio; nella vita ho lavorato tanto perché ho dovuto occuparmi delle cose materiali, che non ho disdegnato, non sono stato un priore che guida intellettualmente la comunità. Coltivavo l’orto, mi interessavo della ceramica, della falegnameria. Sono stato presente in tutte le attività intraprese dalla comunità. Ho accompagnato i fratelli, questo è costato un sacrificio e un carico di lavoro di cui sento il peso».
Le manca Bose?
«Mi mancano due cose soprattutto di Bose. La vita fraterna, perché sono tornato a vivere in una solitudine che avevo vissuto all’inizio quand’ero quasi un eremita. Mi aveva temprato, ma a 78 anni non avere più una comunità e dover vivere solo e pensare a tutto è stato molto difficile, penoso e faticoso. E poi mi manca la preghiera comune; si ha bisogno della preghiera con gli altri dopo tanti anni di preghiera comune. Queste due cose mi mancano; gli ospiti vengono anche qui a trovarmi e non ho bisogno sempre di essere sull’onda».
Ancora pochissimo tempo e si trasferirà a “Casa della Madia”: vuol dire che darà vita a una nuova comunità?
«“Casa della Madia” non sarà una nuova Bose, perché la comunità ecumenica di Bose è come un figlio: una volta fatto non si può rifare. Neppure sarà in concorrenza con Bose. Si tratta semplicemente di continuare la vita fatta di fraternità, di accoglienza di tutti credenti e non credenti, un luogo in cui ci si ritrova, ci si confronta con libertà; quindi, ci sarà una accoglienza di persone che vogliono questo confronto. Non saremo assolutamente una nuova Bose, ma qualcosa di molto semplice che permetta a me di continuare a essere ciò che sono stato tutto la vita: un monaco che accoglie gli altri, che non è un eremita, perché non è la sua vocazione e che muore come ha vissuto».
Allora non si può dire che lei è il fondatore di una nuova comunità?
«No, assolutamente no».
Di cosa ha paura fratel Enzo?
«Ho tanta paura della sofferenza fisica e della malattia mentale da vecchio: Alzheimer e demenza senile. Perché quando ho avuto a che fare con queste malattie ho visto quanto è difficile vivere per loro e per chi li assiste. Per cui vorrei che mi fosse evitato, spero che il Signore non mi faccia passare attraverso questa strada. Il dolore spero che mi sia alleviato anche a costo di abbreviarmi la vita (l’ho scritto nel mio testamento); anche la Chiesa permette le cure palliative. C’è un limite alla sopportazione del dolore».
Lei hai patito la sofferenza nel cuore nel lasciare la Comunità di Bose. Nel suo ultimo libro scrive che si è «sempre sentito in una carovana e mai un disperso nel deserto. Neanche l’esilio mi ha destabilizzato rispetto alle comunicazioni che mi hanno ispirato una vita intera».
«Questa sofferenza c’è. Non mi ha destato rancore, amarezza, non mi ha scosso nella fede, non mi ha scosso nell’amore nonostante non riesca a capire l’enigma di persone vicinissime a me che hanno consumato un vero e proprio tradimento nei miei confronti senza motivo, perché c’era un accordo. Salvo una doppiezza mantenuta per anni, c’era quasi un’amicizia oltre che una fraternità. Sono gli ultimi anni della mia vita e faccio i conti che ciò che conta davanti agli altri e al Signore è ciò che ho fatto, e quindi non posso assolutamente smentire ciò che ho fatto».
Non cambierebbe nulla?
«Non cambierei nulla».
C’è un sogno nel cuore di fratel Enzo?
«Il mio sogno è che la Chiesa pensi un po’ meno a sé stessa e di più a Gesù Cristo. Mi sembra che oggi la Chiesa sia molto narcisistica, troppo incentrata su di sé, troppo interessata a sé. E continua a parlare di sé. È tempo, invece, che pensi alla centralità di Gesù Cristo. In questo senso Ratzinger ha qualche cosa da dirci».
Da chi può partire questo rinnovamento?
«Deve partire da noi, perché non si è mai vista una istituzione che riforma sé stessa».