
Nei Detti dei padri del deserto è frequente l’ammonizione a non rivelare il peccato compiuto da un fratello, non accusarlo di una colpa commessa, ma piuttosto custodire nel silenzio il peccato del fratello pregando per lui e sentendosi peccatori non meno di chi ha peccato pubblicamente o è stato scoperto.
Questo era Vangelo e tramandato nella sapienza del deserto costituiva un insegnamento per i monaci e i lettori. Ma oggi nella chiesa sembra che tale atteggiamento evangelico non sia più compreso. Anzi, si pensa di far bene a denunciare il peccato commesso da un altro. Perché? Le cause possono essere molte. Alcuni lo fanno perché hanno la vocazione a essere spioni, censori, e amano esercitare un ministero della condanna che peraltro non è mai stato loro affidato: per la maggior parte si tratta di ecclesiastici rigidi, severi, che vedono i peccati altrui ma non i propri. Altri lo fanno per trovare motivi di autocompiacimento, narcisisti che devono denunciare gli altri, impotenti nel peccato e proclivi alla virtù.
Questo è un male che oggi ammorba la vita, soprattutto nella chiesa: vescovi che denunciano i preti che hanno peccato, che divulgano la notizia di peccati commessi dai preti (peccati secondo l’etica cristiana, non delitti secondo la legge dello stato). Che tristezza! Credono così di purificare la chiesa? O in realtà vogliono giustificare solo se stessi e l’istituzione e isolare il peccatore? Costoro sono dei “catari”, malati dell’eresia dei catari. Il silenzio sul peccato del fratello è l’inizio della misericordia.