di Giannino Piana
Coscienza e potere appaiono, a una prima impressione, categorie antitetiche. La prima – la coscienza - ha infatti la sua sede nell’interiorità dell’uomo e presiede alla valutazione dei comportamenti e alla produzione delle decisioni che egli, di volta in volta, assume; il secondo – il potere – è un fenomeno del tutto esteriore che si acquisisce grazie al ruolo di cui si è investiti e che si esercita nell’ambito dei rapporti interpersonali e sociali. In realtà, al di là delle apparenze, un legame tra essi sussiste, sia nel senso che la coscienza è a suo modo un potere, il “vero potere di tutti”, così la definiva Turoldo, sia nel senso che l’agire etico esige una corretta coscienza del potere come antidoto al pericolo della sua prevaricazione.
Su questi due versanti – il potere della coscienza e la coscienza del potere – si svilupperanno le riflessioni di questa breve nota, il cui obiettivo è quello di fornire elementi fondamentali per il discernimento delle azioni umane e per il perseguimento, attraverso di esse, del bene personale e sociale.
Alcune importanti premesse
Prima di entrare nel merito dell’approccio alle questioni inerenti i due versanti segnalati, è importante definire con precisione il significato dei due termini, che non corrispondono a criteri di univocità, ma presentano aspetti complessi e ambivalenti dai quali non è possibile prescindere.
Il termine “potere” ha assunto nell’immaginario comune un significato prevalentemente (in alcuni casi esclusivamente) negativo, mentre ha in realtà connotati ambivalenti. Da un lato, si presenta infatti con una valenza negativa, potendo trasformarsi – e il rischio è quanto mai reale – in volontà
di potenza, cioè in esercizio arrogante del dominio sugli altri; dall’altro, contiene una indiscutibile valenza positiva, in quanto patrimonio di energie personali – si pensi all’exousìa che i vangeli attribuiscono a Gesù –, che possono essere poste al servizio dei fratelli. Come ci ha ricordato a suo
tempo Ritter (1), il potere ha dunque le sembianze dell’incerto, di una sorta di “mezza luce crepuscolare” che reca in sé, in misura radicale e immediatamente trasparente, i tratti aporetici propri della condizione umana.
Un’analoga riflessione occorre fare a proposito del termine “coscienza”. Essa non è mai espressione “allo stato puro” dell’interiorità dell’uomo, pur radicandosi in tale interiorità – in questo consiste infatti la sua singolarità – ma è la risultante di complessi processi socioculturali, che ne delineano i contorni e ne definiscono i contenuti. Una realtà dunque non “neutrale”, che va assunta tenendo in considerazione il contesto in cui si è inseriti e l’inevitabile influenza che esso esercita sull’agire umano.
Il potere della coscienza
Il potere della coscienza sul quale si sofferma anzitutto la riflessione qui proposta è un potere universale, nel senso che coinvolge la vita di tutti. La morale cristiana non ha esitato a riconoscere da sempre che la coscienza costituisce il riferimento decisivo al quale il soggetto deve, in ultima analisi, ispirare la propria condotta, al punto di giungere a definirla come la norma prossima dell’agire, riconoscendole un primato assoluto, fino a giungere ad affermare il rispetto dovuto alla coscienza invincibilmente erronea e il dovere di obbedirle. Tutto questo non si è accompagnato nei fatti – è importante sottolinearlo – all’elaborazione di una dottrina e di una prassi pastorale coerente: a prevalere è stata per molto tempo nella tradizione morale cattolica (e lo è in molti casi ancor oggi) una morale della legge, nella quale la valutazione dei comportamenti veniva (e viene) del tutto ricondotta alla conformità o meno nei confronti dell’oggetto. Una morale “cosificata – quella della casuistica – che escludeva ogni riferimento al dato soggettivo, scollegando pertanto l’agire dal mondo interiore della persona.
Si deve tuttavia riconoscere che il primato della coscienza è oggi fortunatamente presente tanto nella riflessione etica cristiana che in quella laica. A segnare questa svolta hanno concorso in particolare le drammatiche vicende del “secolo breve”, le quali hanno messo in evidenza i grossi
rischi che si corrono quando ci si affida in maniera incondizionata alla legge e al principio di autorità. La coscienza, che il Vaticano II definisce nella dichiarazione Dignitatis humanae come un vero e proprio “sacrario della persona”, acquisisce il potere di “giudice supremo” tanto dei poteri dominanti quanto della stessa legge, la quale va sottoposta al vaglio del principio di giustizia e commisurata alle esigenze vere della persona e delle situazioni. In questo contesto si sono sviluppati, acquisendo sempre maggiore importanza, due antichi istituti: l’epieikìa e l’obiezione di coscienza. La prima – la virtù dell’epieikìa, come la definisce Tommaso d’Aquino (2) – designa l’atteggiamento da tenere verso la legge, confrontando la giustizia legale con una giustizia più alta, quella della legge naturale, in base alla quale occorre in definitiva valutare ogni espressione dell’agire umano. La seconda – l’obiezione di coscienza –, che discende dalla prima come un corollario, comporta il rifiuto di obbedire alla legge, assumendosene la responsabilità con la disponibilità a pagarne le conseguenze, quando essa risulta in contrasto con la propria coscienza, cioè con il sistema di valori cui si aderisce (3).
L’esercizio del potere della coscienza, che costituisce una garanzia imprescindibile per la salvaguardia del significato intenzionale del comportamento, deve tuttavia fare i conti con alcuni rischi derivanti dalla percezione che si ha di essa nell’odierno contesto socioculturale. Si assiste infatti oggi, da un lato, allo svuotamento della sua identità più profonda in ragione di un’interpretazione ideologica dei condizionamenti biopsichici e socioculturali (un ultimo decisivo apporto è venuto al riguardo dalle neuroscienze che offrono peraltro elementi di grande interesse per la conoscenza delle dinamiche proprie dello sviluppo del suo esercizio); dall’altro, alla rivendicazione dei suoi diritti in termini individualisti e solipsistici quasi si trattasse di una realtà appartenente totalmente ed esclusivamente al soggetto, avulsa perciò da qualsiasi rapporto con il tessuto relazionale della realtà. Ripristinare concretamente il primato della coscienza significa allora salvaguardarne, per un verso, la identità e originalità soggettiva non riducendola a una semplice sovrastruttura frutto di condizionamenti esterni; per altro verso, significa prendere seriamente in considerazione il suo essere “situata” e dunque la sua costitutiva relazionalità, in quanto frutto di un processo formativo nel quale entrano in gioco, accanto ai fattori ambientali, i rapporti che si istituiscono con gli altri, a partire dalle figure parentali.
La coscienza del potere
La possibilità di trovare il giusto equilibrio, vincendo gli opposti rischi segnalati, è strettamente legata a una corretta e realistica consapevolezza di quanto il potere incida sulla vita delle persone e di come la coscienza sia chiamata a tenerne conto assumendo un giusto atteggiamento nei suoi confronti.
Ciò che è anzitutto importante – come in parte già ricordato – per il perseguimento dell’obiettivo qui indicato è il superamento tanto della demonizzazione del potere quanto della sua esaltazione acritica. In ambedue i casi si tratta di una visione deformata, che impedisce di guardare il potere per quello che è. Nel primo caso, lo si considera soltanto nella sua valenza negativa, trascurando l’opportunità che esso fornisce di intervenire positivamente sui diversi processi socioculturali orientandoli verso finalità di crescita personale e sociale. Nel secondo caso, lo si accetta in maniera incondizionata, non tenendo in conto la presenza della volontà di potenza che su di esso permanentemente incombe e nei confronti della quale occorre costantemente vigilare.
Tutto questo si riflette – è importante ricordarlo – sul piano soggettivo, nell’assunzione di due atteggiamenti opposti ma ugualmente pericolosi. Il primo è il mancato riconoscimento del potere che ciascuno ha, il suo occultamento, che si realizza fingendo di non avere nulla a che fare con esso, con la conseguenza di esercitarlo spesso nel modo peggiore. L’assenza di una effettiva consapevolezza – tutti abbiamo dei poteri, sia pure di natura diversa e in diverso grado – ha come esito l’impossibilità del controllo, e dunque la possibilità che prenda il sopravvento la volontà di potenza. Il secondo atteggiamento consiste, invece, nella piena coscienza che di esso si ha e nella sua assunzione positiva, volontà di potenza inclusa, pervenendo a una forma di autoreferenzialità, che si traduce nella strumentalizzazione e nell’assoggettamento dell’altro mediante l’esercizio del dominio nei vari campi dell’esperienza umana. Il potere, che ha oggi un volto multiforme e variegato, presenta in proposito aspetti particolarmente critici – si pensi ai poteri forti dell’economia e dell’informazione – con l’esito di una prevaricazione autoritaria, che rappresenta un vero e proprio attentato alla libertà e alla democrazia.
La coscienza del potere deve tradursi allora nella messa in atto di una costante vigilanza e nell’acquisizione della capacità di un altrettanto costante discernimento delle situazioni; vigilanza e discernimento, che hanno nell’etica della responsabilità la propria concreta espressione (4). Si tratta di interrogarsi, di volta in volta, a partire dal riconoscimento dell’ambivalenza del potere, sulle conseguenze che le proprie azioni hanno sugli altri (oggi in un mondo globalizzato sull’intera famiglia umana) e di perseguire il bene possibile, abbandonando tanto la tentazione di fughe utopistiche – altra cosa è l’utopia correttamente intesa – quanto quella di una forma di realismo machiavellico, che non considera le gravi ricadute negative della volontà di potenza.
Il modello evangelico
Un modello esemplare, al riguardo, è quello evangelico. Il potere non viene qui rifiutato, ma finalizzato positivamente al perseguimento della liberazione umana. Gesù – ce lo dicono con chiarezza i vangeli ricorrendo in proposito al termine exousia già ricordato– non ha mancato di esercitare un potere, ma si è sempre trattato di un potere al servizio dell’uomo, e mai di un potere sull’uomo.
Ma c’è di più. Gesù non ha esitato a contravvenire alle disposizioni della legge, di cui era normalmente da buon ebreo osservante rispettoso, quando in gioco vi era il bene dell’uomo, che non poteva che avere la precedenza. L’affermazione perentoria: “Il sabato è per l’uomo, e non l’uomo per il sabato” (Mc 2, 27), che si può tradurre in termini più ampi: “La legge è per l’uomo, e non l’uomo per la legge”, conferma senza esitazione questo assunto. Numerose sono le situazioni in cui egli infatti agisce in giorno di sabato per venire incontro a problemi di primaria necessità come malattie o altre sofferenze (Gv 5, 9. 16-18; cfr. Mt 12, 10; Mc 1, 21 e 3, 2-5; Lc 13, 10 e 14, 3-5), non esitando ad affermare di essere signore anche del sabato (Mt 12, 8; Mc 2, 27-28; Lc 6, 5).
Questo è allora il potere che Gesù chiede venga esercitato dai suoi discepoli (e di conseguenza dalla Chiesa): “Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono.
Tra voi non sarà così, ma chi vuol diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuol diventare il primo tra voi sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20, 26-27; Mc 10, 43-44; Gv 15, 13). Se si vuole che Il potere si eserciti a favore dell’uomo, occorre ispirare la propria condotta a questo modello.
N o t e:
(1) Cfr. GERHARD RITTER, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino, Bologna 1958.
(2) Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II.II, q. 96.
(3) Cfr. LORENZO MILANI, L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di don Milani, Editrice Fiorentina Chiarelettere 2020.
(4) Sul tema dell’etica della responsabilità, che ha avuto grande sviluppo a partire dalla definizione di Max Weber, mi permetto di rinviare a un mio recente contributo, cfr. GIANNINO PIANA, Etiche della responsabilità. La voce di alcuni protagonisti, Cittadella Editrice, Assisi 2009.