di Giannino Piana
Durante il periodo nel quale ho soggiornato a Roma per frequentare gli studi teologici presso l’Università Gregoriana ho avuto al Seminario Lombardo diversi compagni illustri che frequentavano la Facoltà di Diritto canonico e che hanno fatto tutti una brillante carriera ecclesiastica divenendo alti prelati: Carlo Caffarra, Attilio Nicora, Francesco Coccopalmerio cardinali e Giuseppe Vacchelli arcivescovo, Segretario di Propaganda fide (gli ultimi due tuttora viventi).
Un’esperienza personale
Era la stagione del Concilio, che aveva inaugurato con la promulgazione della Dei Verbum e della Lumen gentium una ecclesiologia non piú incentrata prevalentemente sull’aspetto giuridico-istituzionale, ma su quello carismatico-spirituale, e personalmente li snobbavo (in verità non io solo) dicendo che il diritto canonico era una disciplina anacronistica, retrograda e reazionaria.
In seguito, esaurito il ciclo istituzionale della teologia, dovevo scegliere il biennio di specializzazione: i miei interessi vertevano sulla filosofia e sulla teologia fondamentale. Ma venni raggiunto in quei giorni da una telefonata del rettore del Seminario novarese, il quale mi comunicava che, essendo morto improvvisamente in età ancora giovane il professore di morale, dovevo scegliere la specializzazione in teologia morale. Fu per me come un fulmine a ciel sereno.
Avevo una vera e propria allergia verso quella materia, che si sviluppava secondo il modello di una casistica intrisa di diritto canonico. Entrai in uno stato di depressione, poi mi ripresi, iscrivendomi contemporaneamente al biennio ad lauream alla Gregoriana e al biennio di morale all’Accademia Alfonsiana, dove insegnava padre Bernhard Haering di cui avevo letto con vero piacere il primo volume del manuale della teologia morale – sulla morale fondamentale – in cui ribaltava il modello canonistico tradizionale introducendo come riferimento fondativo la Bibbia e la teologia dogmatica e spirituale. Inoltre, frequentando i corsi di Joseph Fuchs alla Gregoriana mi sono rasserenato, e progressivamente ho imparato ad amare questa disciplina, che aveva del tutto abbandonato il forte riferimento al diritto canonico.
Un rapporto conflittuale
Questo lungo preambolo è per mettere fin dall’inizio in chiaro quale è il mio giudizio sul diritto canonico o meglio la precomprensione pregiudiziale con cui mi sono accostato e tuttora mi accosto a quella disciplina. Non intendo negare la necessità all’interno della chiesa di una forma di legislazione che regoli alcuni rapporti interni e con l’esterno, ma sono convinto debba essere più limitata e più agile, e soprattutto non vada concepita come struttura portante della ecclesiologia.
Purtroppo ancora oggi una parte consistente dei canonisti – lo conferma il dibattito in corso in preparazione del Sinodo – ha una visione di chiesa in cui a prevalere sono gli aspetti giuridico-istituzionali.
Questo dato di fatto inconfutabile ha reso (e rende) conflittuale il rapporto tra diritto canonico e teologia (in particolare, come già si è ricordato, con l’ecclesiologia), dando vita a una vera opposizione tra le due discipline. Lo scontro si fa più acceso in alcuni momenti nei quali vengono affrontate questioni riguardanti la conduzione della vita della chiesa come l’attuale discussione attorno alla sinodalità e al ruolo dei laici.
La priorità conferita agli aspetti istituzionali non poteva che mettere in primo piano la dimensione gerarchica, con la riproposta di una visione verticistica decisamente superata dal Vaticano II, che ha rovesciato la piramide, assegnando il primato al “popolo di Dio” e inserendo la gerarchia all’interno (non al di fuori e al di sopra) e al servizio della intera comunità cristiana.
La cosiddetta “legge fondamentale” (Lex ecclesiae fundamentalis) e il nuovo codice di diritto canonico (Codex iuri canonici), promulgato nel 1983, al di là della cornice ispirata ad alcune categorie conciliari, ripropone in realtà una visione dell’esercizio delle funzioni magisteriali e della ricerca teologica che ci porta indietro nel tempo, non rifacendosi alle indicazioni e agli orientamenti offerti dal Concilio, ma proponendo la visione tridentina di Chiesa, che ha trovato un ulteriore supporto nel Vaticano I. Nel primo caso – quello della “legge fondamentale” – si è scatenato, dopo la sua promulgazione, un dibattito a tinte forti, che non ha mancato di tradursi talora in atti di aperto dissenso e di vera contestazione. I teologi avevano giustamente visto in tale legge un consistente ridimensionamento dell’idea di chiesa conciliare, fino alla contrapposizione tra un modello carismatico e un modello giuridico. Nel secondo caso – quello del diritto cattolico – si profilava un ulteriore colpo di mano: ad essere intaccato non era soltanto l’impianto ecclesiale ma, più radicalmente, la stessa teologia rinnovata del Concilio, che subiva un contraccolpo, soprattutto a livello metodologico, ma anche a causa dell’uso di categorie desuete che non corrispondevano ai connotati dello stesso linguaggio – il linguaggio non è un puro involucro ma dice la “cosa” – che lasciava intravedere un’immagine assai diversa rispetto al percorso fatto nei primi decenni postconciliari.
La forte presenza della Bibbia, non come puro elemento decorativo, ma come struttura portante dell’intero impianto della teologia confligge apertamente con una visione legalistica come quella che sta alla base del diritto canonico. Si tratta di due modi alternativi di accostarsi al cristianesimo; il primo aperto al mistero, che non si spiega ma può essere soltanto fatto oggetto di “comprensione”; il secondo caratterizzato dalla tendenza a circoscriverne con precisione i contorni secondo un ordine razionale perfetto, che non fa spazio all’inconoscibile e all’innominabile, a una presenza-assenza: nonostante la rivelazione di Dio è infatti più quello che di lui non conosciamo che quello che conosciamo. Per questo l’accostamento al divino può avvenire soltanto – ce lo ricorda Paolo – “come attraverso uno specchio ed enigmaticamente”, facendo uso di un linguaggio simbolico, che evoca, allude, dice la “cosa” ma rinvia “oltre”; in una parola – come afferma Levinas – il linguaggio dell’”infinito” e non della “totalità”.
Per una teologia del diritto canonico
Il conflitto tra teologia e diritto canonico non esclude (e non può escludere) l’esigenza di un rapporto tra la due discipline. La critica fin qui fatta al diritto canonico è legata soprattutto alle modalità con cui lo si è ricuperato nel postconcilio con la pretesa, in molti casi insistita, di restituzione del primato all’aspetto istituzionale della chiesa. Il che non significa che quest’ultimo aspetto non sia in essa presente e debba essere preso seriamente in considerazione. La ecclesiologia del Vaticano II, con la centralità assegnata al “popolo di Dio”, ci offre una concezione di chiesa come realtà divino-umana, cioè come una comunità di uomini e donne chiamati a fare insieme una comune esperienza. La fede e la salvezza non sono per i cristiani eventi individuali; sono ambedue realtà che nascono in un contesto comunitario e si sviluppano entro tale contesto.
Questa dimensione comunitaria (non societaria) ha bisogno per svilupparsi di alcune norme, che consentano l’esercizio delle diverse attività comuni. Ma deve trattarsi – come peraltro ricordava a suo tempo Tommaso d’Aquino – di un numero ristretto di norme al servizio della vita comunitaria; un numero limitato alla stretta necessità, in modo che venga preservata la assoluta priorità della dimensione spirituale-carismatica. La ragione fondamentale che l’Aquinate adduce per giustificare questa posizione è costituita dal fatto che al cristiano, in virtù della redenzione, è data la “legge nuova” (lex nova) consistente nella grazia dello Spirito Santo (gratia Spiritus Sancti), la quale esige la presenza di alcuni precetti (pochi) che hanno la duplice funzione di predisporre alla ricezione dello Spirito e di tradurre in azioni concrete le sollecitazioni che da esso provengono (Summa theologiae, I-II, q. 108).
A queste ultime condizioni (e solo a queste) il rapporto tra teologia e diritto canonico può svilupparsi in modo corretto e costruttivo.