di Massimo Recalcati
Si può accogliere ciò che è stato come una possibilità nuova e non come una maledizione. Occorre essere grati nei confronti delle generazioni precedenti e di ciò che abbiamo vissuto.
Il passato è una catena che impedisce la nostra libertà? E una maledizione che impone la ripetizione inesorabile dello stesso trauma? Non a caso Nietzsche lo definiva come «il peso più grande».
Quello che abbiamo vissuto si deposita alle nostre spalle accorciando e condizionando impietosamente il tempo della nostra vita. Siamo tutti figli del «potere di ieri», come direbbe Jung.
Nessuno può più agire su ciò che è già stato ma solo subirlo.
Ma le cose stanno davvero così? Sappiamo bene che esiste un passato che non possiamo dimenticare. È un insegnamento della clinica psicoanalitica: la nostra memoria – come la nostra stessa vita – resta appesa ai traumi che l’hanno marchiata in modo indelebile. Si tratta di un passato che non può essere ordinato in un archivio, catalogato in un album o in un cimitero dei ricordi, ma che ritorna in modo spettrale imponendo alla nostra vita la sua ripetizione. In questo senso non siamo noi che decidiamo di ricordare il passato ma è il passato che si impone sulla nostra decisione di ricordare. È un fatto di esperienza: non riusciamo mai a ricordare come vorremmo quello che è stato e non riusciamo a non ricordare quello che dal passato vorremmo dimenticare. Questo significa che c’è qualcosa di sempre vivo nel nostro passato. La memoria non può essere né l’archivio, né l’album, né il cimitero dei ricordi. Piuttosto, come Freud ha mostrato bene, siamo inseguiti, tormentati, placcati dal nostro passato più traumatico: quello che è già stato insiste nel ripetersi, non cessa di rincorrerci e di condizionare la nostra vita.
Accade in modo eclatante nel film Il cacciatore di Cimino, dove uno dei protagonisti non può non continuare a ripetere nel corso della sua vita il trauma della roulette russa alla quale era stato sottoposto durante la guerra del Viet Nam, quando era caduto prigioniero dei Viet Cong. In questo caso, come nei disturbi che il DSM classifica come post-traumatici, il passato ritorna spettralmente imprigionando la vita in un “eterno ritorno dell’eguale”. Anche la depressione scaturisce da un legame tossico con il passato. Per il depresso tutto è già avvenuto, tutto si è già consumato, tutto è già stato e l’avvenire non può che essere solo cenere. Per questa ragione la sua inclinazione è sempre quella di rimpiangere ciò che è stato e non è più: la vigoria del proprio corpo, gli entusiasmi dei primi amori, una carriera professionale luminosa, un’infanzia felice… Il rimpianto è, infatti, un modo per entrare in rapporto col passato che mentre lo idealizza, lo rende per questa ragione insuperabile. Se tutto ciò che brilla è perduto, se è sprofondato nel buio di un passato irrecuperabile, se la mia vita si perde insieme a ciò che ha perduto, allora non abbiamo più futuro perché anche il futuro viene risucchiato all’indietro, trascinato verso il passato.
Ma il rimpianto non è la sola possibilità che noi abbiamo di entrare in rapporto col passato. Il grande insegnamento della psicoanalisi, che su questo punto eredita la riflessione di Nietzsche sul tempo storico, consiste nel mostrare che è solo la nostra lettura attuale del passato a definirne il senso. In questo modo noi abbiamo sempre la possibilità di dare una significazione inedita a ciò che è già avvenuto. La concezione lineare e causale del tempo si modifica profondamente: non è più il “prima” che determina inesorabilmente il “dopo”, ma esattamente il contrario. È il “dopo”, quello che deve ancora venire, che determinata quello che è già stato.
Sembra un pensiero contro intuitivo ma è, in realtà, un pensiero che anche gli storici conoscono bene. È solo lo sviluppo successivo dei fatti che ha potuto, per esempio, tradurre la presa della Bastiglia in un evento che noi possiamo riconoscere come epocale e non in una sommossa qualunque. Lo stesso si deve dire anche per il trauma incalcolabile della Shoah. Siamo noi a custodire oggi la realtà di quell’evento.
E questo si realizza solo se nel tempo presente quel trauma continua a esistere e ad insegnare. Non si tratta, dunque, di ricordarsi di ciò che è avvenuto ma di riscrivere la storia facendo esistere oggi il senso di ciò che è stato.
È lo stesso che accade in una esperienza analitica: il paziente non si limita a ricordare il proprio passato, ma ne ricostruisce il senso in modo assolutamente inedito. È quello che intendeva Nietzsche quando affermava che è necessario «darsi a posteriori il proprio passato». La rimemorazione non consiste nella semplice riproduzione di quello che è già avvenuto, ma nella ricostruzione inedita della propria storia. Il rimpianto non è dunque il solo modo di entrare in relazione con il nostro passato. Ad esso dovremmo contrapporre la gratitudine.
Diversamente dal rimpianto, essa accoglie ciò che è stato come una possibilità nuova e non come una maledizione. In questo senso, nella gratitudine il passato non è mai del tutto morto. Non appare come un peso al collo che trascina la vita verso il basso, ma come una nuova linfa: luogo di un insegnamento, di una verità, di un evento ancora vivo. Essere grati nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduti e nei confronti di tutto quello che abbiamo vissuto (il bene e il male, il buono e il cattivo incontro, la gioia e il dolore), significa non lasciarsi inghiottire dal passato, non cedere alla tentazione della nostalgia come rimpianto, ma riscattarlo, redimerlo proprio in quanto esso continua a riscriversi attraverso la nostra vita attuale e futura. È solo nella gratitudine che la memoria resta davvero viva.