di Andrés Torres Queiruga*
Le nostre preghiere riflettono ed educano l’immagine di Dio che portiamo in noi e annunciamo nel mondo: “lex orandi lex credendi, lex credendi lex orandi”. Nella cultura odierna sono innumerevoli le persone che non sono state educate secondo le formule tradizionali. Molti bambini e molti giovani non le hanno nemmeno mai udite.
Quando oggi si ascoltano, si leggono alla lettera, in ciò che significano oggettivamente, leggendole nel dizionario.
Penso alle grandi celebrazioni che, trasmesse in televisione, raggiungono il mondo intero. È successo, ad esempio, durante i funerali della regina Elisabetta in Inghilterra (non si tratta solo dei cattolici, ma dei cristiani). Accade nelle grandi celebrazioni vaticane. Anche durante visite particolarmente importanti di papa Francesco.
Di solito sono serie, impegnate, persino belle. Ricordo le preghiere al funerale inglese, con frasi accurate nella forma e nel tono. Succede normalmente in quelle del papa. In particolare, hanno richiamato la mia attenzione le “petizioni” proclamate in una recente celebrazione a Marsiglia, dopo il suo discorso ai leader religiosi.
Come sempre, il discorso papale, pieno di spirito evangelico, mostra la generosa preoccupazione per i grandi problemi e i dolorosi bisogni dell’umanità. Le sue parole sono un appello ardente che risveglia i cuori e invita alla solidarietà. Le proclama davanti al Dio dei profeti, i quali, in suo nome, hanno esortato alla sollecitudine per l’orfano, la vedova, lo schiavo e lo straniero. Le fa nel nome di Gesù, che ha testimoniato con la vita e consacrato con la morte la sua piena dedizione allo sforzo di curare il dolore del mondo, lasciando come suo incarico decisivo l’urgenza di operare a favore di tutti gli umiliati e gli offesi.
Una volta pronunciato il discorso, quando i fedeli sono invitati da diversi partecipanti a sentirsi come convocati nel nome di Dio e a rivolgersi a lui, tutto si ribalta. Le parole rompono la logica intima e l’atteggiamento adorante e accogliente della celebrazione.
Ciò che ci si aspettava era che la comunità fosse invitata ad aprirsi alla chiamata divina, per lasciarsi commuovere e, ravvivando la fede e la fiducia nel suo aiuto, ad adoperarsi a collaborare il più possibile alla sua azione salvifica.
Ma in quel momento la speranza fa marcia indietro. Invece di aprirsi a Dio e prendere coscienza del suo messaggio, che convoca per collaborare con la sua opera a favore dei bisogni umani, le preghiere si preoccupano di ricordarglieli. Invece di decidersi ad ascoltare la sua chiamata per aprire la nostra sensibilità e cercare a seguirla, la preghiera cerca di convincerlo, affinché ascolti e si decida ad avere misericordia.
Di conseguenza, ciò che, secondo il tenore delle parole, dovrebbe consistere nell’uscire dalla celebrazione con l’animo ridestato, con la fiducia filiale e la decisione di collaborare con Dio nell’opera di alleviare il dolore che oscura il mondo e affligge gli uomini, sue figlie e suoi figli, nostri fratelli e sorelle, lasciamo tutta la responsabilità a lui, con parole che cercano di ravvivare la sua compassione e muovere la sua decisione. E, anche senza rendercene conto, mandiamo al nostro inconscio personale un messaggio rassicurante che, contro la nostra stessa intenzione, smobilita la volontà e calma l’inquietudine.
E, quanto all’ambiente culturale, anche senza volerlo, inviamo il messaggio subliminale che il Dio che preghiamo perché elimini i mali, è responsabile del fatto che esistano e che non si risolvano: il male si trasforma così per molti nella “roccia dell’ateismo”. Leggere la stampa, soprattutto durante le grandi catastrofi, dovrebbe diventare una dura lezione teologica.
Ribadisco che tutto questo avviene senza che nessuno se ne accorga e lo voglia.
Perché non si tratta in alcun modo di giudicare intenzioni o di ignorare la reale buona volontà di chi prega così: tutti noi, e ovviamente non escludo me stesso, lo abbiamo fatto tante volte senza accorgerci della terribile contraddizione. Ma oggi, il declino della preghiera e l’enorme tsunami di incredulità che distrugge la fede in (questa immagine di) Dio, dovrebbero allertare sia la sensibilità dei credenti sia la responsabilità dei teologi e anche del magistero ecclesiale. Siamo di fronte ad una sfida enorme, che proprio per questo rappresenta una grande opportunità. Non è facile trarne vantaggio, poiché lotta contro abitudini antiche e inerzie profondamente radicate. Ma è urgente prendere coscienza.
Almeno, per decidersi ad avviare il cambiamento.
Personalmente, da molto tempo mi sto sforzando di chiarire teologicamente questa oggettiva carenza nella nostra pratica di preghiera. La necessità di correggerla mi sembra innegabile. Fino all’evidenza. Ecco perché come una preoccupazione, quasi come una supplica ecclesiale, invece di ingarbugliarmi in sottili discussioni, invito semplicemente e fraternamente a prendere una posizione personale sul problema.
Propongo di leggere insieme, con questa intenzione e questo spirito, l’esempio reale di “preghiera dei fedeli” che è stata fatta nella suddetta celebrazione di Marsiglia.
È un buon esempio, perché incorniciato evangelicamente dalle profonde e commoventi parole di papa Francesco sul dramma delle persone che muoiono annegate nel Mediterraneo. Le suppliche sono eccellenti nella loro formulazione e cordiali nella loro comunione con la sofferenza. E sarebbe indegno cedere al minimo dubbio sull’intenzione generosa, pulita ed evangelica dell’ambiente. Ma quello stesso ambiente aiuta a percepire con maggiore evidenza la discrepanza che mantiene con lui ciò che le orazioni dicono nelle loro parole. Non è questa intenzione ciò che esprimono nel loro significato oggettivo e – permettetemi di usare un termine erudito – con la loro terribile efficacia pragmatica. Cioè, con l’impatto che essi hanno sulla coscienza dei credenti e sulla percezione dell’immagine di Dio nei non credenti. Si legga attentamente:
• Oggi milioni di persone vengono gettate sulle strade e nei mari del mondo dalla guerra, dalla miseria e dalla persecuzione politica o religiosa. O Dio, ti preghiamo. - Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
• Illumina il loro cammino, guidali senza sosta, perché nessuno si perda, perché trovino porte e cuori aperti per accoglierli, una terra dove riposare, un futuro per loro e per i propri figli. O Dio, ti preghiamo. — Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
• Allontana da loro la tentazione della violenza e della disperazione, affinché possano trovare in te, Signore, la fonte della speranza nelle difficoltà che possono sperimentare. —Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
• Dona un cuore umile ai responsabili dell’accoglienza affinché possano ascoltare questi uomini e queste donne in esilio e imparino a conoscerli e a comprenderli. O Dio, te lo chiediamo. —Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
• Insegna ai responsabili dell’accoglienza a servire senza giudicare, rendili strumenti della tua pace. Per loro, Signore, ti preghiamo. — Padre di tutti i popoli, ascolta la nostra preghiera.
Varrebbe la pena ripercorrere la celebrazione per percepirne il contrasto in tutta la sua vividezza.
Permettetemi di rafforzarlo ricordando le parole con cui questo duro squilibrio si ripete con terribile efficacia nella maggior parte delle celebrazioni domenicali: “Signore, ascolta e abbi pietà”.
Mentre l’abitudine e l’assimilazione ripetitiva ci impediscono di rendercene conto, di solito non si percepisce l’enormità teologica che viene espressa in questo modo. Ma, dal momento in cui ci si rende conto espressamente di quanto così proclamato, non dovrebbe essere facile sottrarsi allo stupore. Ripeto: non mi escludo da un fenomeno al quale, senza rendermene conto e con tutte le buone intenzioni, ho partecipato da molti anni. Ma confesso anche che, una volta che me ne sono accorto, il tenore oggettivo di quelle parole produce in me una sensazione che non riesco a evitare, che risulti come qualcosa di blasfemo.
Sono in gioco la responsabilità teologica e pastorale. E soprattutto c’è tutto il rispetto adorante davanti alla grandezza divina e il timore di ferire l’infinita tenerezza del suo amore. Il Sinodo, con la mobilitazione dell’intero corpo ecclesiale, offre un’occasione propizia per gettare i semi di un processo di aggiornamento al proprio interno come comunità orante e all’esterno come ospedale da campo. Se non avessi paura di cadere nella tentazione di essere eccessivamente solenne, finirei per dire come confessione e quasi a discolpa: “dixi et salvavi animam meam”.
*Articolo pubblicato il 26.09.2023 nel sito Religión Digital (www.religiondigital.com)