Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Siamo tutti aspiranti cristiani

22/02/2024 00:00

Paolo Ricca

Testi di amici 2024,

Siamo tutti aspiranti cristiani

Colloquio con Paolo RIcca a cura di Stefano Zecchi

Colloquio con Paolo Ricca a cura di Stefano Zecchi*

Presentare il prof. Paolo Ricca credo sia inutile vista la sua grande notorietà, il suo essere punto di riferimento per credenti e non credenti, la sua autorevolezza nel campo non solo biblico, ma ecumenico, pastorale e vista la sua lunga amicizia con il nostro quindicinale. Dall’infanzia in Piemonte, nella Val Pellice, sede di un’importante comunità valdese, all’incontro all’università di Basilea con Karl Barth, il teologo Paolo Ricca attraverso questo incontro ci svela anche il suo percorso di fede, rivela i suoi dubbi e ci racconta come arrivò la sua vocazione, il suo diventare pastore, il suo essere uomo di studio e di fede.

 

Prof. Paolo Ricca come sta?

 

Sto bene, grazie, sono in piedi. Alla mia età (88 anni compiuti) non va da sé, e ogni giorno è ricevuto e vissuto come un regalo, se si è in condizioni di salute buone o almeno discrete… Certo, il «peso degli anni», come si dice, si fa sentire. Ma la vita resta un miracolo quotidiano. Ogni risveglio mattutino è una parabola della risurrezione dai morti. Nel Nuovo Testamento, lo stesso verbo «risvegliare» descrive sia il risveglio quotidiano dal sonno, sia quello definitivo dalla morte…

 

Recentemente ha pubblicato per la casa editrice Claudiana ‘Secondo Marco’, un commento al più antico Vangelo cristiano. Marco è stato il primo a scrivere, in una prospettiva di fede, la storia di Gesù, dall’inizio del suo ministero terreno fino alla fine. Chi è stato Marco? E chi è stato Gesù per Marco?

 

Marco è un personaggio storico, un cristiano del 1° secolo, conosciuto e stimato, che ha sicuramente lavorato nella primissima missione cristiana con l’apostolo Paolo, occasionalmente anche con Pietro e, per motivi familiari con un altro apostolo di nome Barnaba. Marco è quindi vissuto a stretto contatto con i maggiori apostoli del 1° secolo. Si può quindi capire che la Chiesa, che voleva accreditare come «apostolico» un evangelo anonimo e chiaramente non scritto da un apostolo, ne abbia attribuito la paternità a questo Marco, che con ogni probabilità non l’ha scritto, ma non ci stupiremmo se un giorno dovessimo scoprire che, invece, l’ha scritto proprio lui. Chi è stato Gesù per Marco? Risponde lui stesso all’inizio del suo evangelo: «Inizio dell’evangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (1,1) Gesù è anzitutto un «evangelo», cioè una buona notizia; in secondo luogo è «Figlio di Dio», cioè il suo volto umano, l’uomo di Nazareth che, al tempo stesso, invoca Dio e lo incarna. Questo paradosso accompagna tutta la storia di Gesù che si conclude nel momento in cui ciò che egli dice di Gesù all’inizio, viene detto alla fine da un pagano, il centurione romano che, dopo aver assistito all’agonia e alla morte di Gesù, disse: «Veramente quest’uomo era il Figlio si Dio!» (15,39). Non solo per Marco, dunque, Gesù è «evangelo».

 

Lei è teologo e pastore della Comunità Valdese, come si diventa pastori?

 

Nella Chiesa Valdese pastori si diventa così: dopo gli studi secondari, si accede alla Facoltà di teologia a Roma, per quattro anni più uno in una Facoltà teologica universitaria in Europa o nell’America del Nord o del Sud, talvolta anche in Africa. Dopo la laurea a Roma, si viene «messi alla prova» per un anno o più sotto la guida di un pastore più anziano. Poi c’è un «esame di fede» finale davanti all’insieme dei pastori e infine si viene «consacrati» al ministero pastorale dalla assemblea sinodale composta da pastori e laici, con l’imposizione delle mani da parte dell’intera assemblea. Un iter, dunque, abbastanza lungo, dopo il quale ci viene affidata una chiesa locale, dove, giorno dopo giorno si comincia a imparare che cosa significa essere pastore di una Chiesa, e questa «lezione» non finisce mai.

 

Lei ha conosciuto uno dei più grandi teologi del 900, e ha seguito le sue lezioni, Karl Barth. Che ricordo ne ha di lui? Lui ha scritto un monumentale commento alla ‘Lettera ai Romani’. Perché è così importante Paolo per i valdesi?

 

Di Barth ricordo tante cose, ma quella che più mi ha colpito è la sua capacità di sorridere di se stesso, cioè di non prendersi troppo sul serio. Solo i grandi raggiungono questo livello di sapienza. «Perché Paolo è così importante per i valdesi?». Perché i valdesi, nel 1532, aderirono alla Riforma protestante e il protestantesimo è, in sostanza, una forma paolina di cristianesimo: Lutero scoprì l’evangelo della grazia, cioè il cuore della sua teologia, meditando su Romani 1,17, che egli chiamò «la porta del cielo». Ma Paolo – è superfluo dirlo – è importante per tutti i cristiani, perché è lui che ha capito Gesù meglio di tutti gli altri apostoli – lui che non ha conosciuto il Gesù «storico», il Maestro di Nazareth, rabbino «fuori legge», senza fissa dimora, che trasgredisce il sabato e accoglie le donne come sue discepole.

 

Il 17 febbraio 1848 il Re Carlo Alberto concesse i diritti e pubblici e civili ai sudditi valdesi. A quasi 180 anni da quella data che significato oggi potremmo cogliere?

 

Il significato delle ‘Lettere patenti’ del re Carlo Alberto del 1848 è che per la prima volta in Italia non si discriminano più i cittadini (allora si diceva «sudditi») sul piano civile e politico a motivo di una diversa convinzione religiosa. Non si parla ancora di libertà religiosa, che in Italia verrà solo un secolo dopo con la Costituzione della Repubblica (1948), ma quello del 1848 è stato un primo passo decisivo.

 

850 anni fa il movimento valdese ha portato una ventata di novità nel mondo cristiano. Che cosa resta di quel periodo, di quella ventata?

 

Del movimento valdese medievale, poi confluito nella Riforma protestante, restano, nella Chiesa Valdese di oggi, due eredità: l’urgenza dell’annuncio cristiano e della centralità della Bibbia per la fede e la vita di ogni cristiano. Valdo era un laico senza formazione accademica, ma sfidando divieti e scomuniche, non ha potuto soffocare la chiamata divina a predicare in pubblico e nella lingua del popolo l’evangelo così come sta scritto nel Nuovo Testamento e specialmente nel Sermone sul Monte, sine glossa, cioè senza aggiungere o togliere nulla. Questa stessa urgenza è la ragion d’essere di ogni Chiesa, anche della piccola Chiesa Valdese. La parola da annunciare è sempre quella, contenuta nella Sacra Scrittura, canone unico della fede e della vita dei cristiani. Non abbiamo altra parola da dire né altra sapienza da trasmettere. È quella parola che, in ogni epoca, è la vita del mondo.

 

«Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato». (Gv 17, 20-26). 

 

Abbiamo ancora tanta strada da fare perché diventare una cosa sola? Come vede la situazione del dialogo ecumenico?

 

«Abbiamo ancora tanta strada da fare per diventare ‘una cosa sola’ (Giovanni 17,20- 26)». In realtà noi cristiani appartenenti a Chiese tra loro divise, siamo già «una cosa sola» in quello che possiamo chiamare l’essenziale cristiano. Qual è questo «essenziale cristiano»? È la fede nel Dio trinitario e in Gesù veramente uomo e veramente Dio. Questa fede è comune a tutti i cristiani. Dovrebbe essere sufficiente per dichiararci uniti in ciò che è costitutivo del nostro essere cristiani, cioè ciò che veramente conta, vale e qualifica come cristiani. Ma le Chiese sembrano non crederci: credono più nella loro divisione che nella loro unità! Certo, ci sono differenze, anche grosse, ma sono davvero essenziali, cioè vitali per la fede cristiana? Ad esempio: il papato è essenziale per la fede cristiana?

 

Per i cattolici, forse, sì, ma non per gli ortodossi né per i protestanti. Come nel secolo apostolico, così nella storia della Chiesa si sono manifestati diversi tipi di cristianesimo: si può essere diversi senza essere divisi; è però indispensabile che ciascuno accetti la diversità dell’altro. Altrimenti non si avanza verso l’unità.

 

E se dovessimo, da questo punto di vista, fotografare la situazione attuale?

 

Oggi il dialogo ecumenico mi sembra fermo: c’è, ma non progredisce. Il fatto che i rapporti tra le Chiese, oggi, sono in generale molto cordiali e fraterni è una benedizione per la quale siamo sommamente grati: non è sempre stato così. Ma perché il dialogo faccia dei passi avanti è indispensabile che le Chiese stabiliscano insieme che cosa sia l’essenziale cristiano oggi, cioè su che cosa si deve essere d’accordo per poter parlare di unità, e su che cosa, invece, si possono avere pareri e posizioni diverse, senza che questo cancelli o allenti il vincolo di unità. In altri termini, si tratterebbe di stabilire insieme quella «gerarchia delle verità» non solo cattoliche, ma cristiane, di cui parlò il Concilio Vaticano II, ma che da allora è rimasta lettera morta. Le vecchie gerarchie delle verità, che ciascuna Chiesa ha fissato da sola, senza neppure consultare le altre, le conosciamo e sappiamo che non servono per far avanzare il dialogo ecumenico. Oggi si tratta di stabilire insieme una gerarchia ecumenica delle verità cristiane, che finora non c’è. E finché non c’è, non si possono fare passi avanti nel cammino verso l’unità.

 

Nel nostro contesto sembra sempre più in ombra la domanda su Dio e, per la verità, anche la risposta. Siamo circondati da indifferenza, la Bibbia non da risposte, ma suscita domande. Noi cristiani le suscitiamo? E quale dovrebbe essere il ‘mestiere’ del teologo oggi? Possiamo rendere ragione della speranza che è in noi anche attraverso la ragione?

 

Oggi – mi sembra, ma spero di sbagliarmi – le Chiese parlano poco di Dio. Sul piano liturgico ne parlano anche troppo, come sempre: messe, culti, battesimi, funerali, cerimonie e riti vari continuano come prima, e tutto avviene nel nome della Santissima Trinità. Ma questo Dio liturgico – se così posso dire – mi sembra un Dio addomesticato, funzionale al funzionamento della Chiesa, un Dio rassicurante che non disturba nessuno. È nell’annuncio pubblico della Chiesa che mi sembra di dover registrare un impressionante silenzio su Dio. Ci preoccupiamo tanto di un presunto silenzio di Dio, ma forse dovrebbe inquietarci di più il silenzio su Dio. La Chiesa parla di tutto: immigrati da accogliere, poveri con cui solidarizzare, pace per cui pregare, coppie omosessuali (da benedire o no?), sacerdozio femminile (sì o no?), suicidio medicalmente assistito (sì o no?), e così via – tutte questioni importanti e controverse di cui bisogna anche parlare, ma il tema principale del discorso della Chiesa è un altro, è Dio, la sua presenza e azione nascosta nel mondo, il suo regno che con Gesù è diventato vicino. Non può non lasciarci interdetti il fatto che il messaggio pubblico della Chiesa più largamente pubblicizzato con ogni mezzo (stampa, radio, Tv) sia l’Otto per mille!

 

Questo messaggio è certamente importante per finanziare una parte rilevante della diaconia della Chiesa, ma non è quello il messaggio che la Chiesa deve annunciare, non è quello l’Evangelo!

 

E cosa, invece, dovrebbe annunciare e testimoniare la Chiesa di essenziale?

 

La Chiesa dovrebbe seguire l’esempio di Gesù, che ha fatto diaconia da mattina a sera, sette giorni alla settimana, sabato compreso (sfidando il divieto!), quindi oltre alla predicazione non ha fatto altro che diaconia, ma – non so se lo avete notato – non ne parla mai! Non reclamizza mai le sue ‘opere potenti’! Egli parla del regno di Dio vicino, parla cioè non di quello che fa lui, Gesù, ma di quello che fa Dio: mette sempre Dio al centro. Noi invece reclamizziamo le nostre opere: pubblicizzando l’Otto per mille ci vantiamo dicendo come siamo bravi ad amministrare i soldi che i contribuenti italiani ci affidano, cioè, in sostanza, annunciamo noi stessi! Ma il nostro compito è parlare di Dio, non di noi! A me pare che oggi il compito del teologo sia quello di aiutare la Chiesa a ritrovare il centro della sua vocazione e la sua stessa ragion d’essere in questo mondo. Certamente possiamo, anzi dobbiamo, rendere conto della speranza che è in noi anche attraverso la ragione. In che modo? Ce n’è più d’uno. Uno è di percorrere la pista della «trascendenza nell’Al di qua» (l’espressione è di Dietrich Bonhoeffer). L’idea da sviluppare è che c’è una trascendenza iscritta nella realtà di questo mondo. Che cos’è il canto rispetto alla parola se non la sua trascendenza? Così pure la poesia rispetto alla prosa. O la musica rispetto al suono, e così via. Che cos’è la libertà se non la trascendenza della condizione animale? E la gratuità se non la trascendenza rispetto al mercato? Gli esempi si potrebbero moltiplicare. La realtà creata ha in sé l’anelito verso un «oltre» che non la aliena, ma la invera. Dio non è lontano dai territori che questo Oltre dischiude, Dio abita nella libertà e nella gratuità.

 

Venti di guerra soffiano in ogni parte del mondo, c’è una guerra a pezzi come dice papa Francesco. Guerre che attraversano in pieno ‘territori’ a forte insediamento religioso (dei tre monoteismi), dall’Ucraina a Israele/Palestina, quale dovrebbe essere la caratteristica di un’autentica testimonianza delle fedi, a cominciare da quella cristiana? Che giudizio da di papa Francesco?

 

Papa Francesco predica la pace come tutte le persone ragionevoli, ma la pace non viene, perché non la si costruisce con le parole, che si ascoltano sempre volentieri perché fanno bene all’anima, ma non servono allo scopo. Quello che manca oggi drammaticamente nel mondo e nella Chiesa sono i «costruttori di pace» di cui parla Gesù nelle Beatitudini: «Beati coloro che fanno la pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Matteo 5,9). Ma come si fa la pace? Non con le parole, ma con la nonviolenza. Ce l’hanno mostrato, vivendola personalmente, tra gli altri, Gandhi e Martin Luther King, ai quali abbiamo costruito monumenti (se non altro di parole), ma non li abbiamo imitati. La nonviolenza è l’unico antidoto alla guerra. Ma quando scoppia la guerra, è troppo tardi, perché la nonviolenza non la si improvvisa né la si impara in poco tempo. È un lungo tirocinio, una lenta formazione che si svolge sia sul piano teorico, sia su quello pratico delle tecniche di nonviolenza.

 

Non si tratta solo di rinunciare alle armi. Si tratta di formare un’umanità che fa della nonviolenza uno stile di vita che riguarda i rapporti con gli altri esseri umani e gli altri popoli, ma anche i rapporti con gli animali e con la natura. È un ampio e impegnativo programma nel quale le religioni, se vogliono davvero esorcizzare la guerra dalla storia e dalla coscienza umana, devono impegnare le loro migliori energie. Ogni parrocchia o comunità religiosa di qualunque tipo e credo dovrebbe diventare o quanto meno allestire nel suo seno una palestra di nonviolenza nella quale, con pazienza e costanza, si impara a diventare persone nonviolente, cioè molto diverse da quelle che tutti noi siamo (tranne pochissime e rarissime eccezioni). Solo un’umanità nonviolenta può diventare pacifica. Questo dovrebbe essere oggi, in un mondo in fiamme, il compito primario delle religioni se vogliono servire davvero alla crescita umana: pacificare Caino attraverso l’educazione alla nonviolenza, prima che si avventi sul suo fratello Abele, e lo uccida, perché ogni omicidio – anche questo dovrebbe essere insegnato – è un fratricidio.

 

Siamo immersi in una società, specialmente occidentale, secolarizzata. Qual è secondo lei il giusto spazio della fede in questo contesto? Che ne pensa dello sforzo del cosiddetto postteismo di ripensare o, secondo alcuni, diluire l’immagine di Dio?

 

Ripensare l’immagine di Dio? È comprensibile che ogni generazione, avvertendo il mutare dei tempi e delle mentalità senta il bisogno di ripensare l’immagine di Dio. Ho detto recentemente che è stata pubblicata una Bibbia queer, che – immagino – proponga un’immagine queer di Dio (qualunque sia il significato che si voglio attribuire a questo aggettivo diventato fin troppo (e troppo in fretta) popolare. Può darsi che a qualcuno esercizi di questo genere siano utili, se non altro per ricominciare una riflessione su Dio forse abbandonata. A me pare però che sulla questione dell’immagine di Dio dovremmo riflettere soprattutto su due punti. Il primo è il secondo dei Dieci Comandamenti che vieta di farsi «scultura alcuna né immagine alcuna» di qualunque cosa creata per adorarla come Dio e, tanto più, di Dio stesso. Questo divieto, che contraddiceva tutta la spiritualità religiosa di quel tempo (e di tutti i tempi!) significa che un Dio immaginato è un Dio immaginario, una costruzione mentale umana, che non può produrre altro che un Dio a nostra immagine e somiglianza. Dio è inimmaginabile, e come tale dev’essere conosciuto e adorato. Il secondo punto è che l’unica immagine che Dio ci ha dato di se stesso è Gesù (II Corinzi 4,4), del quale, peraltro, non abbiamo nella Bibbia alcuna immagine. A dire il vero, anche l’uomo, cioè la persona umana nella sua polarità di maschio e femmina, è stata creata «a immagine e somiglianza» di Dio (Genesi 1,27): Ma questa immagine è molto offuscata e oscurata, tanto che se ne trovano solo alcune tracce, spesso neppure riconosciute come tali. Perciò Dio ha mandato in mezzo a noi il suo Figlio, che non a caso gli evangeli chiamano «Figlio di Dio e dell’uomo», per richiamare alla memoria dell’umanità, che l’aveva persa, come viva, pensi, parli e agisca l’uomo «immagine di Dio».

 

Che cosa è per lei oggi l’essenziale della fede cristiana? E qual è la ‘differenza cristiana’ che rende possibile ogni dialogo interreligioso ma continua a definire un’identità da custodire?

 

La differenza cristiana sta – mi sembra – in quello che prima abbiamo chiamato «l’essenziale cristiano», cioè, in primo luogo, come abbiamo detto, la visione trinitaria di Dio. La Trinità, tanto discussa nel passato, spesso negata o comunque considerata un’astruseria ‘bizantina’, ha invece un grande valore: essa dice che Dio non è un punto matematico, una monade monocolore (se così si può dire), ma è un insieme di relazioni). La Trinità vuol dire che la natura di Dio è in se stessa (e non solo nei confronti del mondo esterno) relazionale. Ma anche la vita, sia micro che macrobiotica, e sommamente la vita umana, è relazione. L’amore, che è la chiave che dischiude il segreto del mondo, è relazione: l’amante, l’amato, l’amore. La seconda «differenza cristiana», e in quanto tale «identità da custodire» è naturalmente Gesù, che riteniamo sia «veramente il Salvatore del mondo» (Giovanni 4,42), e non solo dei cristiani. Crediamo anche che egli lo sia non solo con la sua morte e risurrezione, ma anche e anzitutto con la sua vita. Credo che la vita di Gesù possa essere un terreno particolarmente fecondo per il dialogo interreligioso. In una delle sue ultimissime lettere dal carcere, Bonhoeffer scriveva (il 21 agosto 1944) «Dobbiamo immergerci di nuovo, di continuo, molto a lungo e con molta serenità nella vita, nella parola, nell’azione, nella sofferenza di Gesù per discernere che cosa Dio promette e che cosa Dio realizza» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, ediz. italiana a cura di Alberto Gallas, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 474) . L’umanità di Gesù può essere capita e amata da chiunque.

 

Risurrezione, cos’è per lei la risurrezione oggi? Come mai non riusciamo ad essere Vangelo, buona notizia in questa nostra società?

 

La risurrezione è l’affacciarsi nel nostro mondo dell’altro mondo, dell’altra vita, dell’Aldilà, che è Dio è la soglia che non possiamo varcare, ma che Dio ha voluto, nella sua bontà, farci intravvedere.

 

Vorremmo abbracciarla e farla nostra, come Maria di Magdala, ma non possiamo. Forse la risurrezione è più un segreto da custodire che uno stendardo da sbandierare, La Chiesa antica, tra le altre cose, praticava anche, occasionalmente, la disciplina dell’arcano. Non mi stupirei se il messaggio della risurrezione rientrasse in quella «disciplina».

 

Grazie di cuore Prof. Ricca per le sue parole, ma mi permetta un’ultima domanda, come mai è diventato Valdese?

 

Sono nato in una famiglia valdese, anzi mio padre Alberto era anche lui pastore. Però non basta nascere in un contesto familiare valdese per «diventare valdese». Ho impiegato tutta la vita tentando di diventare cristiano perché, come diceva Kierkegaard, siamo tutti «aspiranti cristiani». Diventare valdese ha un senso come tappa per diventare cristiano. Ma non lo si diventa mai compiutamente.

 

Siamo cristiani in fieri. Bisogna che Cristo venga e, nella sua misericordia, faccia anche di me, col suo perdono, quel cristiano che non riesco a diventare.

*in “Rocca” del 1 marzo 2024