Pubblicato su: Vita Pastorale luglio 2024
di Enzo Bianchi
Il Sinodo s'è prefisso la riforma della vita della Chiesa e, dunque, occorre riflettere su questa esigenza sempre presente nella sua storia. La Chiesa è pellegrina verso il Regno, sempre da riformare. Ecclesia semper reformanda: può apparire una formula della Chiesa antica, in realtà non la si trova presente nel grande dibattito della Riforma del XVI secolo né nei secoli precedenti. Karl Barth la usa in una conferenza del 1947 e la cita poi nella sua Dogmatica come un adagio attestato nella vita della Chiesa.
In verità, la Chiesa ha sempre sentito nei suoi membri l'anelito alla conversione, alla riforma. Ma se, come ha osservato Giuseppe Alberigo, «nel primo millennio la riforma ha un significato essenzialmente individuale e spirituale, come conversione interiore», nel secondo millennio è stata invocata quale rinnovamento della Chiesa, della sua forma istituzionale, quale ritorno alla primitiva forma ecclesiae. In questo senso, Jean-Jacques von Allmen leggeva la riforma come epiclesi della Pentecoste e della parusia: «Una riforma è un esaudimento provvisorio della preghiera che la Chiesa rivolge a Dio per affrettare la fine, la venuta del Signore e del suo Regno. Essa è preludio alla resurrezione, al giudizio, alla vita eterna».
Dunque, la riforma della Chiesa è un atto di obbedienza allo Spirito, a «ciò che lo Spirito dice alla Chiesa»: non sono, infatti, già le sette lettere alle sette Chiese dell'Apocalisse un invito alla conversione e alla riforma? E tuttavia in Tertulliano (Il velo delle vergini 1,1) troviamo un'altra formula, che appare opposta, e che è stata ripresa da Blaise Pascal (Pensieri, 440): «Mai la Chiesa sarà riformata», formula che mette in evidenza la forza della tradizione, la continuità che non prevede rotture, la fedeltà al passato.
È certo che la parola "riforma" non ha mai goduto di buona fama nella Chiesa cattolica dopo il grande scisma del XVI secolo: la riforma era soprattutto quella iniziata da Lutero, "la rivoluzione protestante". Così il termine "riforma" appare quale titolo di un libro decisivo di Yves Congar, Vraie et fausse réforme dans l'Église (1950), quindi ricorre due volte nel decreto conciliare sull'unità della Chiesa, l' Unitatis redintegratio (1964). Vi è una tale diffidenza verso il termine, che il testo ufficiale latino dell'enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI (1964) traduce il vocabolo italiano "riforma" del manoscritto del Papa con il più neutro renovatio. A partire dal Vaticano II il termine "riforma" è stato reintrodotto nel dibattito ecclesiale, anche se appare raramente nei testi del magistero papale. Con Francesco, invece, è diventato un termine di uso frequente, anzi programmatico del suo pontificato.
Ma cosa può indicare il termine "riforma"? Nel cristianesimo, che è ricezione della rivelazione, viene data una forma canonica, più che esemplare: la forma Evangelii, la forma della vita Jesu, la forma ecclesiae. La riforma è azione per riportare alla forma canonica ciò che col passare del tempo è stato oscurato, ferito o addirittura perduto: è azione di conversione, di ritorno. Questo movimento dev'essere incessante, «finché verrà il Signore»: proprio in attesa di quel giorno della parusia, la Chiesa, la sposa, deve farsi bella per il suo Sposo (cf Ap 21,2), deve riformarsi per essere secondo la forma nella quale lo Sposo l'attende.
Ma il termine "riforma", soprattutto nel secondo millennio in occidente, ha avuto il significato di ritorno alla primitiva forma perduta o molto contraddetta. La tradizione cristiana ha sempre guardato ai "sommari" degli Atti degli apostoli, nei quali viene presentata la Chiesa nata dalla Pentecoste, come descrizione della Chiesa voluta dal Signore e plasmata dallo Spirito santo, dunque come sua forma canonica in ogni tempo nella storia. La descrizione della comunità primitiva, con le quattro "note" o perseveranze, ha sempre ispirato la vita cristiana. E all'inizio del monachesimo, nel IV secolo, a questa forma di Chiesa fanno riferimento i fondatori monastici come Pacomio e Basilio. Certo, occorre ribadire che solo il Signore Gesù può riformare la Chiesa, così come solo Dio può fare il dono della conversione: «Proprio colui che ti ha formato sarà anche il tuo riformatore» (sant'Agostino).
Alla Chiesa compete l'ascolto, l'obbedienza, la risposta alla chiamata, alla parola del Signore, a ciò che lo Spirito le dice. Nel decreto sull'ecumenismo (UR) il Concilio dedica il paragrafo 6 alla renovatio ecclesiae, dicendo chiaramente: «Siccome ogni rinnovamento della Chiesa (renovatio ecclesiae) consiste essenzialmente nell'accresciuta fedeltà alla sua vocazione, esso è indubbiamente la ragione del movimento verso l'unità. La Chiesa pellegrinante sulla terra è chiamata da Cristo a questa perenne riforma (perennis reformatio) della quale essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha continuo bisogno».
Purtroppo, su questo tema della riforma della Chiesa s'è fatto un lungo silenzio dopo Paolo VI nella crisi post-conciliare durante il pontificato di Giovanni Paolo II, quando un certo timore s'è impadronito della gerarchia e, poco alla volta, è tornato in auge il linguaggio della restaurazione, a sostituzione di quello della riforma. Nell'enciclica Ut unum sint Giovanni Paolo II attesta il legame tra rinnovamento, conversione e riforma, ma a tale dichiarazione non fa seguito nessun inizio di riforma della Chiesa e della forma del papato. E quelli sono anni in cui chi chiede la riforma della Chiesa è visto con sospetto, viene emarginato e fatto tacere nei luoghi ecclesiali ufficiali.
Ma ecco l'inatteso: il 13 marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio viene eletto Papa e subito si presenta ed è percepito come un riformatore. Egli dichiara che «ciò di cui la Chiesa ha più bisogno in questo momento storico sono le necessarie riforme», unite alla misericordia. Delinea così la necessità di riforme istituzionali e di riforma dello stile della Chiesa. Nell'Evangelii gaudium (2013), testo programmatico del suo pontificato, ritorna sulla riforma delle strutture della Chiesa e chiede una conversione pastorale, seguendo il sentiero tracciato dal Concilio. Parla di conversione del papato (forma del "ministero petrino"), delle diocesi, delle parrocchie. E, soprattutto, accenna all'assunzione della sinodalità come necessario mutamento del cammino della Chiesa. Francesco ha iniziato la riforma della curia romana, ha modificato lo stile del papato, vuole attuare uno stile sinodale.
Ora, però, ci chiediamo: la riforma muoverà passi concreti o resterà solo un annuncio? La riforma della curia va chiamata per quello che è: "riorganizzazione", non "riforma" che richiederebbe ben altri mutamenti e ben diverse comprensioni dei rapporti tra ministero di Pietro ed episcopato, tra curia romana ed episcopati, dell'episcopato stesso presente nelle diverse "genti" dell'umanità. Proprio per questo, nel cammino ecumenico si registrano gesti coraggiosi del Papa e incontri tra le Chiese, in un rinnovato impegno di dialogo, ma non sembra esserci un'azione che affretti la comunione visibile. Oggi l'ecumenismo o è riforma delle Chiese oppure non è altro che cordialità tra le Chiese. E la riforma di ogni Chiesa o è anche ascolto delle altre Chiese sorelle oppure non è riforma. Se continuano a prevalere timori identitari, verranno spenti gli aneliti di riforma. E non sarà possibile nessun syn-odós, nessun camminare insieme.
Papa Francesco però, ancora una volta, precede e apre nuovi percorsi ecumenici. Infatti, ha voluto e approvato la pubblicazione di un testo che, riprendendo l'Ut unum sint, fa proposte significative di riforma dell'esercizio del ministero petrino e sulla sinodalità alle Chiese ortodosse. Finalmente dopo tanto silenzio restiamo in trepida e orante attesa! Sì, la Chiesa, in quanto istituzione umana, dev'essere riformata e purificata. Il Sinodo in corso è un'azione di riforma della Chiesa richiesta dallo Spirito santo attraverso il risuonare della parola di Dio e i segni dei tempi. Sarà un Sinodo che metterà in moto una riforma? Francesco profeticamente lo vuole e spera che il popolo di Dio lo seguirà per amore e fedeltà al suo Signore.