Intervista a Michel De Certeau a cura di Piero Pisarra
Cinquant'anni fa le sue linee simboleggiarono il nuovo, una rivoluzione architettonica nel cuore di Parigi, con gli sfiatatoi giganti, i tubi di acciaio e le pareti di vetro che evocavano una raffineria. Progettato dagli architetti Renzo Piano e Richard Rogers, il Centro Pompidou, anzi Beaubourg, senza l'articolo, dal nome del quartiere in cui sorse, doveva essere luogo di avanguardie e di sperimentazioni, uno spazio «polivalente e pluridisciplinare», come si diceva allora, dedicato a tutte le arti, la pittura, la musica, il cinema, il design. Con un museo, un laboratorio linguistico innovativo e una biblioteca che avrebbe consentito, finalmente, l'accesso diretto agli scaffali, senza schede da riempire, senza barriere e senza lunghe attese.
Ora, quel simbolo della modernità è invecchiato. Avrà bisogno di lunghi lavori di restauro: cinque anni o forse più. Prima della chiusura, sul terrazzo da cui si domina la Ville lumière — la Tour Eiffel ben visibile a ovest, il Sacré-Coeur a nord — incontro Michel de Certeau, che amava il Centro Pompidou e che nel 1983 fu incaricato di un rapporto che ne ridisegnasse i compiti e la missione. Agli altri tavoli del caffè, studenti e turisti approfittano del tempo primaverile per una pausa en plein air.
Storico, filosofo, membro della Scuola freudiana di Parigi, la corrente lacaniana della psicanalisi, antropologo, semiologo, teologo... Michel de Certeau è il «gesuita tipo», ha scritto un giornalista di Le Monde.
«E' vero che nella Compagnia siamo polivalenti come il Centro Pompidou [ride]. Ma non penso di rappresentare un "tipo"».
So che le definizioni le stanno strette. «Inafferrabile» sarebbe meglio, per lei che dell'inafferrabile ha fatto una figura teologica.
«L'altro è l'inafferrabile che sconvolge i nostri piani, le nostre abitudini, lo straniero, il guastafeste che ci obbliga a una dislocazione, un cambiamento di luogo e di sguardo, poiché non è mai là dove ci si aspetta di trovarlo. È ciò che nella Chiesa fanno i mistici, fastidiosi, importuni, eppure indispensabili, perché ci rinviano verso l'Altro, che avanza in incognito, sconosciuto e misconosciuto, colui del quale l'evangelista Giovanni (1,11) dice: "Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto"».
A proposito di mistici, anche lei, come il gesuita del XVII secolo Jean-Joséph Surin, a cui ha dedicato le sue prime ricerche, è un «pellegrino delle frontiere».
«Il mistico è sempre alla frontiera, sul crinale tra sacro e profano, spirituale e materiale. E una scelta rischiosa, sapendo, però, che il senso brilla in fondo al rischio. Pierre Favre, savoiardo come me,
che fu tra i primi compagni di Ignazio, lui si, è stato un altro di questi pellegrini delle frontiere, mai sazio di avventure e mai fermo. Io non sono un mistico, le frontiere che attraverso sono quelle tra le discipline umanistiche».
Lei è nato nel 1925 à Chambéry, nel '50 è entrato nella Compagnia di Gesù ed è stato ordinato sacerdote nel '56. Ha studiato teologia nel celebre scolasticato di Fourvière, a Lione, da cui sono usciti gli uomini di punta della cosiddetta théologie nouvelle che avrebbe preparato il concilio Vaticano II. E poi si è orientato verso la storia.
«Se non fosse una metafora cruenta, direi che lo storico è un bracconiere che caccia in terra d'altri, con gli strumenti di altri. Questi strumenti per me sono stati la linguistica, l'antropologia, la sociologia e la psicoanalisi, che ho studiato senza, però, praticarla».
L'Institut Catholique di Parigi, però, le ha negato il dottorato in teologia, nonostante i suoi numerosi scritti in materia.
«E come non capirli? [ride]. Dal loro punto di vista, ero un dinamitardo, uno che scardinava dall'interno le regole e metteva in discussione l'oggetto stesso della disciplina. L'apporto delle scienze umane era ancora guardato con sospetto. Ma questo rifiuto non mi ha impedito di insegnare la storia delle mentalità e l'antropologia religiosa a Ginevra e poi a San Diego, all'Università della California. Infine, a Parigi».
Il Papa attuale la considera tra i suoi pensatori di riferimento, assieme a Henri de Lubac, altro gesuita, di cui lei fu allievo. Lo ha detto, all'inizio del pontificato, nella prima intervista a padre Spadaro della Civiltà cattolica. È sorpreso?
«Abbiamo la stessa ammirazione per Pierre Favre, di cui le ho parlato... San Pierre Favre, canonizzato da Francesco nel 2013. Per me è il modello del "prete riformato" per il quale vita interiore e azione nel mondo sono un tutt'uno. Francesco insiste sulla "Chiesa in uscita": quando ne parlavo io, sembrava che volessi attentare all'unità della struttura, favorendo la dispersione nel mondo; ora è una necessità vitale».
E l'accostamento con padre de Lubac, poi cardinale? Sa che un altro gesuita, il cileno Carlos Alvarez, ha dedicato un libro documentatissimo ai vostri disaccordi?
«Disaccordi teologici tra due amici animati da un'identica passione per l'audacia della fede. Per uno strano gioco della Provvidenza, è toccato a me, defunto, ricordare Henri de Lubac, alla sua morte, dalle pagine di Le Monde. Nel 1985, il giornale mi aveva chiesto un ritratto del cardinale da pubblicare a tempo debito, un "coccodrillo", come dite voi italiani. E fu quel testo a essere pubblicato il 5 settembre 1991. Padre de Lubac si considerava prima di tutto un uomo di Chiesa e secondariamente un teologo: la sua era un'adesione totale, senza compromessi, "a una Chiesa che lascia aperte tutte le porte attraverso le quali menti diverse possono giungere alla stessa verità". Ciò non gli impediva di dire che "l'ortodossia è la cosa più necessaria al mondo e la meno sufficiente". La sua erudizione e la sua intelligenza hanno prodotto quel capolavoro che è Histoire et Esprit, con la ricerca sui quattro sensi della Scrittura, dai Padri della Chiesa ai teologi medievali».
Eppure, il cardinale non le risparmiava le critiche.
«Mi inserì, nel suo libro su La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, tra i gioachimiti contemporanei [sorride]. Ma ero in buona compagnia, accanto ai teologi della liberazione, al francese Maurice Bellet, al teologo protestante tedesco Jürgen Moltmann e a molti altri. Il cardinale contestava la mia idea di "rottura instauratrice", a proposito dell'annuncio cristiano. Con quella formula, sottolineavo la novità radicale del cristianesimo rispetto all'Antico Testamento. E quella sottolineatura fu interpretata come un modo di considerare caduco ciò che é invece parte del deposito della fede, avendo bene in mente quanto detto nel Vangelo di Matteo (5,17): "Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento"».
Ma allora perché "gioachimita"?
«Henri de Lubac si riferiva alla teologia della storia e all'idea delle tre età formulata dal "calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato", che Dante collocò in paradiso (XII, 140-141): l'età del Padre, l'età del Figlio e l'età dello Spirito, quest'ultima essendo quella dei monaci, dei mistici e dei profeti. E così, per la mia passione per il linguaggio dei mistici e i segni dello Spirito sparsi nella storia, mi trovai in compagnia di pericolosi "fraticelli" medievali up to date, come i fratelli Berrigan e gli altri giovani che nei campus americani manifestavano contro la guerra in Vietnam, e gli studenti europei del '68. Quasi duecento anni dopo la presa della Bastiglia, era entusiasmante assistere alla "presa della parola": una nuova generazione si esprimeva con libertà inaudita, anche nella Chiesa. Quella confusione spaventò molti».
Non il cardinale Marty, l'arcivescovo di Parigi, che nel '68 corse a incontrare gli studenti sulle barricate.
«Altri si irrigidirono. Vissero la "presa della parola" nella Chiesa come un trauma, come un attacco al Magistero. Ma la critica, tutto sommato benevola, di padre de Lubac fu motivata da altro. Il teologo gesuita aveva trascorso la vita a indagare il centro del messaggio cristiano, io esploravo i margini; lui adottava gli strumenti e i metodi classici dell'esegesi e della ricerca teologica, io sperimentavo l'utilità della linguistica, della psicoanalisi e dell'antropologia strutturale».
Oggi le due vie non sono più in contrasto.
«Non più, anche se talvolta tornano i vecchi riflessi, gli irrigidimenti e i formalismi che mortificano lo Spirito».
Qual è il suo sogno per la Chiesa di domani?
«Sogno una Chiesa meno autoreferenziale, meno preoccupata di sé stessa, del proprio funzionamento, e più attenta ai margini, una Chiesa che nell'altro, lo straniero, il senzatetto, il migrante, vede il volto del Salvatore. Una Chiesa in movimento, nelle periferie della storia, dove ciò che noi riteniamo fondamentale è messo alla prova nel banale, nell'ordinario, nelle ferite e nei drammi dell'esistenza. Una Chiesa che somigli all'ospedale da campo di cui parla Francesco».
Che cosa pensa del sinodo in corso?
«È un processo necessario. Come molte altre istituzioni, la Chiesa tende a trasformarsi in amministrazione, in una burocrazia del sacro, con i propri funzionari, custodi dell'autorità, della disciplina, delle regole. Riflettere sulle strutture e sulle riforme indispensabili la aiuta a non ridursi ad amministrazione, a comprendere che non esiste per sé stessa e che la sua ragion d'essere è l'altro, con la maiuscola e la minuscola».
«Mai senza l'altro», ha scritto in suo saggio e ripetuto anche in questa nostra conversazione. L'altro è il leitmotiv di tutta la sua ricerca teologica.
«So di insistere e forse di ripetermi. Ma l'esperienza dell'altro è formidabile e tremenda, analoga a quella del Dio della Bibbia, che non possiamo incontrare senza morire. Non è un fatto sentimentale o ideologico, alla maniera di quei finti "dialoghi" che, alla fin fine, negano l'altro perché mirano a sedurlo, a neutralizzarlo o a evitarlo. L'altro in questione non è un selvaggio da colonizzare, un bambino da educare, un pazzo da normalizzare o un passato da integrare. L'alterità è la forma in cui ritorna il "ladro" notturno del Vangelo. È sempre un incontro con l'assoluto, un oscuro e rischioso faccia a faccia, l'opportunità permanente di un risveglio e di una conversione allo straniero che irrompe quando meno te l'aspetti in ogni nostra casa o recinto. L'esperienza cristiana ci dice che in questo incontro una parte di noi stessi è chiamata a morire, per aprirsi alla vita offerta dallo sconosciuto. È la grazia di partecipare a una vita che va oltre, che non è destinata a essere rinchiusa, messa a fruttare al sicuro, nella cassaforte di una banca eterna, ma che al contrario dev'essere "rischiata", donata... persa e, così, guadagnata, secondo la logica del Vangelo».
Ma se vuoi essere udibile, l'annuncio cristiano - lei dice - deve fare i conti con il linguaggio, anzi i linguaggi, della modernità.
«L'esperienza cristiana esiste solo se è incorporata in alcune pratiche e in un linguaggio. Oggi assistiamo ovunque al discredito del linguaggio. I significati si sviluppano meccanicamente, saturando l'atmosfera. Non esprimono più convinzioni, perché il mezzo stesso di produzione, il medium — che può essere uno dei social network, Tiktok o altri — è esso stesso il messaggio, come è stato detto da studiosi autorevoli. La moltiplicazione di queste forme standardizzate di comunicazione amplifica il rumore di fondo, con l'effetto paradossale di rendere impossibile ogni parola che non sia fatta di...silenzio. Ma la Chiesa, che conosce il valore del silenzio, non può accontentarsi di esso. La sfida gigantesca è di fare in modo che il proprio linguaggio sia udibile e comprensibile nelle forme della modernità».
Al suo funerale, ha voluto che si ascoltasse la canzone di Édith Piaf Je ne regrette rien. Non ha nessun rimpianto?
«No. Da cristiano e da gesuita ho tentato di essere fedele alla massima ignaziana: "Cercare Dio in ogni cosa". E spero anch'io di essere ricordato come un pellegrino delle frontiere».
* in “Jesus” di giugno 2024