di Umberto Galimberti*
Che cosa ci dice quel fiume di uomini, donne e bambini che, dal Sud della Striscia di Gaza, dove sono stati obbligati a trasferirsi per non morire sotto i bombardamenti iniziati al Nord, ora ritornano a casa nella loro terra a piedi, con i sacchi che contengono le loro povere cose rimaste, con i bambini sulle spalle, con i vecchi che non ce la fanno sistemati su carretti di fortuna?
Perché lo fanno, tutti insieme, con insistenza e perseveranza, senza esitazione né cedimenti, quando sanno che non troveranno le loro case, ma solo un cumulo di macerie, dove sarà impossibile persino identificare dove quelle case sorgevano e dove probabilmente troveranno sotto quelle macerie i corpi esanimi di quanti non sono riusciti a trasferirsi?
Coperta da quelle macerie non c’è una vera e propria strada che, percorsa, porti tutte quelle persone “a casa”. La strada la aprono loro camminando. Sono le loro impronte a tracciare la strada e niente più.
Quando volgono indietro lo sguardo vedono il sentiero che hanno tracciato, neppure sostenuti dalla speranza che non più la dovranno tornare a rifare. La speranza non li regge, ma li sostiene la nostalgia da assumere qui non come edulcorata malinconia, ma nel suo amaro e struggente significato etimologico reso dalla lingua greca che chiama “nostalgia” il dolore (álgos) del ritorno (nostos). E anche se la loro meta sarà un cumulo di macerie, quella è la loro terra, che sarà loro solo se a calpestarla saranno i loro piedi, e a ricostruirla le loro mani. Non vogliono ripetere l’esperienza del 1947 quando i britannici rinunciarono al loro mandato sulla Palestina e l’Assemblea delle Nazioni Unite votò un piano di ripartizione della Palestina che costrinse molti palestinesi a lasciare le loro terre. Parve a molti ebrei che finalmente fosse possibile realizzare il sogno biblico della “Terra promessa”, anche se non tutti gli ebrei erano d’accordo e, primo fra tutti, Sigmund Freud che, nel 1930, a Chaim Koffler, rappresentante viennese dell’associazione sionista “Keren Hajessod”, che cercava consensi e finanziamenti per gli insediamenti ebraici in Palestina, scrisse una lettera che solo nel 1954 fu pubblicata in ebraico e solo nel 1999 in inglese sul Los Angeles Psychoanalytical Bulletin, in cui diceva: “Non posso fare quello che Lei desidera. Il mio sobrio giudizio sul sionismo non me lo permette. Io non penso che la Palestina potrà mai diventare uno stato ebraico e che il mondo cristiano e il mondo islamico potranno mai essere disposti ad avere i loro luoghi sacri sotto il controllo ebraico. Mi sarebbe parso più sensato fondare una patria ebraica in una terra meno gravata di storia. Giudichi ora Lei stesso se, con un simile atteggiamento critico, io sia la persona giusta per confortare un popolo illuso da una speranza ingiustificata”. La speranza si è realizzata, anche se non possiamo sapere se Freud avrebbe mantenuto questo suo severo giudizio dopo lo sterminio nazista degli ebrei.
Eppure il tema della nostalgia, quella forza che, a mio parere, sostiene quel fiume di persone che traccia con i suoi passi sofferti la strada verso la propria terra, ritorna persino nella lingua tedesca, dove il termine “nostalgia” è reso dalla parola heimweh, dove nella radice heim c’è il richiamo alla patria (heimat), alla casa, al villaggio, a ciò che è familiare (heimlich), anche se poi in Germania heim proseguì la sua storia nella versione negativa di Unhemlich, l’Inquietante, che mi auguro turbi ancora le nostre coscienze.
Quando penso al conflitto israelo-palestinese mi sovvengono le parole di Barbara Spinelli là dove scrive in Ricordati che eri straniero (ed. Quiqajon, Comunità di Bose), esperienza comune sia agli ebrei sia ai palestinesi: “Non è civiltà né operazione di giustizia chiedere all’altro di compiere l’intero cammino che porta a me, da solo, in una logica che non è di cooperazione, ma di sottomissione. […] Perché non: ‘Veniamoci incontro’ anziché ‘Vienimi incontro’. Il che vuol dire facciamo un po’ di passi tutti e due, uno verso l’altro; stringiamo un patto, stabiliamo un terreno d’intesa, magari minimo, però comune”.
* in “la Repubblica” del 29 gennaio 2025