Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Cibo e vita spirituale

07/10/2016 00:58

ENZO BIANCHI

Conferenze archivio,

Cibo e vita spirituale

ENZO BIANCHI - 06/10/2016

Giovedì 6 ottobre 2016 l'Università degli studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo ha conferito a Enzo Bianchi la Laurea Honoris Causa.
Pubblichiamo il testo integrale della sua Lectio Magistralis

Magnifico rettore Piercarlo Grimaldi,
carissimo Carlin Petrini,
amici tutti qui presenti,

ricevere un riconoscimento non è una situazione passiva, ma è per me un atto che significa un grazie e un impegno. Quando mi è giunta la proposta di questa laurea honoris causa, mi sono interrogato, non ho accettato subito come accecato dall’onore, perché sempre risuonano nel mio cuore le parole, per me determinanti, di Gesù: «Guai quando tutti diranno bene di voi!» (Lc 6,26). E non è solo il vangelo a ricordarmele, ma le ripete anche la sapienza della nostra gente, la gente delle nostre colline che sussurra: Esageruma nenta!. Ho anche considerato se l’attribuzione di questa laurea potesse offuscare la figura di un monaco, idealmente e romanticamente pensato come persona solitaria, come asceta che disprezza questa terra perché rapito dal desiderio di lassù. Ad alcuni ciò che accade ora potrà sembrare una celebrazione intellettuale della gourmandise, ma io credo alla conoscenza che è generata dalla concreta relazione con me, non dal sentito dire o dal brusio curioso.

Dunque non ho paura di accogliere questa laurea, perché se essa può significare riconoscimento di una “fedeltà alla terra”, allora confesso di cercare sempre, ogni giorno, questa fedeltà, pur essendo in attesa di una terra nuova, perché questa terra non mi basta… Non mi basta per dare senso pieno alla vita, avendo conoscenza e sapendo discernere quanti fratelli e sorelle in umanità, venuti al mondo come me, con la mia stessa dignità, trovano questa terra ostile, ingrata, trovano la loro vita amara, faticano nel duro mestiere di vivere e con il viso solcato da lacrime o stringendo i denti sognano, desiderano, cercano una terra più ospitale, una vita nella quale sia possibile avere fiducia, nutrire speranza, essere amati e amare.

Cari amici, io resto convinto che un essere umano, e dunque un cristiano (perché il cristianesimo è sempre cammino di umanizzazione), deve amare questa terra come se stesso. Il grande comandamento: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,8; Mc 12,31 e par.) non indica tanto una misura dell’amare quanto un amare l’altro come colui che fa parte della mia vita, del mio essere. E si badi bene: l’altro non è solo il mio prossimo umano, ma sono anche fratello sole, sorella luna, sorella acqua, l’animale, l’albero, il fiore, il sasso… L’ecologia è assolutamente un preliminare all’eco-spiritualità, e se restasse solo scienza, non ispirante e non vissuta, sarebbe veramente inutile.

«Restando fedeli alla terra, cerchiamo le cose dell’alto»: questo versetto di un inno della Liturgia delle ore esprime bene la postura che io cerco di assumere, seppur tra difficoltà e fatiche. Nessuna evasione e nessuna indifferenza nei confronti di questa terra, ma la consapevolezza di esserne responsabile, di essere chiamato a darle voce, ad apprestare tutto perché possa essere trasfigurata in terra nuova. D’altronde, nell’autentica tradizione cristiana l’universo non è antropocentrico ma è una comunità di co-creature, tra le quali l’uomo è un animale come gli altri e insieme agli altri, ma dotato di facoltà proprie, quali il linguaggio e la ragione, che lo abilitano a essere responsabile, capace di dare vita o morte a tutte le altre creature. L’umano, ospite di questa terra, ne è anche oikonómos, economo, ed è anche capace di celebrarla, dunque liturgo, poeta che sa farsi voce di ogni creatura.

Il mondo è stato creato per l’umanità e l’umanità per il mondo: di questo sono certo! Ecco perché la mia spiritualità è sempre eco-spiritualità, ecco perché il cibo è al cuore della vita secondo lo Spirito. Non è possibile vita spirituale senza consapevolezza del cibo, senza attenzione al cibo, senza che si accenda l’arte del mangiare, senza che il pasto sia un rito creatore di senso, senza un’esperienza di condivisione e di comunione intorno alla tavola. È significativo che nell’ebraismo l’incontro con Dio avvenga mediante un pasto (Dio si rivela ad Abramo alle querce di Mamre dove fu imbandita una tavola: cf. Gen 18,1-8; Mosè e gli anziani incontrano Dio sul Sinai dove “mangiarono e bevvero”: cf. Es 24,11); che al cuore del cristianesimo ci sia la tavola eucaristica (cf. Mc 14,22-25 e par.; 1Cor 11,23-25); che nel buddhismo si ricordi che «fare cucina è attività di Buddha», come afferma Zen Dogen, monaco giapponese del XIII secolo. Se «l’uomo è ciò che mangia» – secondo il noto aforisma di Ludwig Feuerbach –, è anche vero che l’uomo si umanizza soprattutto con l’arte del mangiare e che la sua vita spirituale si nutre del cibo, del significato attribuito al cibo, dell’arte di mangiare insieme, del vivere con stile la tavola.

Proprio sulla tavola vorrei ora riflettere insieme a voi e, ispirato dalle motivazioni attestate nella laudatio pronunciata dal rettore, vorrei considerare la tavola nella mia vita. Racconterò dunque di tre tavole.

1.     La tavola di casa mia, in Monferrato, luogo di accoglienza dello sconosciuto

Narro innanzitutto della tavola di una famiglia negli anni del secondo dopoguerra, in Monferrato, una famiglia povera e anche precaria, disgraziata. Mio padre faceva lo stagnino (stagnava pentole e macchine da verderame), con poco guadagno. Ricordo ancora che molti contadini gli pagavano il lavoro eseguito con la verdura: sei carciofi, cinque chili di patate… Per tirare avanti faceva anche il barbiere, sebbene pochi potessero pagarsi il lusso di farsi radere. Mia madre era una donna dalla vita precaria: malata gravemente al cuore, sapeva che se ne sarebbe andata presto e poteva fare poco, tra una crisi asmatica e l’altra. Eravamo poveri anche per il costo delle cure mediche di mia madre, non essendoci allora alcuna previdenza sociale prevista per gli artigiani.

Sì, confesso che la vita era grama, eppure in quel clima su cui incombevano la povertà e la morte ricordo la tavola come un magistero per me ancora bambino. La cucina era la stanza che si affacciava sulla strada e chi entrava era subito stupito dal grande tavolo in noce massiccio che si trovava di fronte. Durante il giorno sul tavolo vi erano una tovaglia sulla quale stavano un pane (una grìssia), un fiasco di vino rosso (barbera o dolcetto) e un orciuolo con l’olio. Il tutto era ricoperto da un tovagliolo ricamato a punto croce con la scritta: «Il pane, il vino e l’olio ci trasmettano lezione e sapienza». Ecco come la tavola diventava un simbolo, anzi un sacramento, mi permetto di dire. Non era possibile entrare in casa senza vedere la maestà di quel pane, di quel vino e di quell’olio. C’era in quell’icona un magistero grande: rispetto per quel pane che era vita («senza pane c’è la morte», si diceva); pane che aveva richiesto lavoro e sudore; pane raro nel dopoguerra, soprattutto quello bianco; pane che era stato vegliato e atteso con trepidazione, soprattutto nei mesi di maggio e di giugno, quando sui campi di grano incombono i temporali con la “tempesta”, la grandine. C’era una venerazione per il pane da parte di tutti: mai sprecato, mai posato male sulla tavola, sempre condiviso.

Ma la tavola di casa mia aveva soprattutto una caratteristica: era sovente un luogo di accoglienza dello sconosciuto. La mia casa era al centro del paese, davanti alla chiesa e all’unica piazza, quindi era il luogo di arrivo di zingari, mendicanti, “lingere”, venditori ambulanti. Proprio loro erano gli sconosciuti invitati a tavola, perché mio padre ripeteva: «È vergognoso dare da mangiare sulla porta!». Così fin da piccolo ho mangiato accanto a sconosciuti, spesso poco decenti, che a volte mi facevano paura (soprattutto le “lingere”), altre volte mi allietavano, come i “ramai” montenegrini. Ascoltavo le poche parole scambiate, e imparavo ad accettare uno sconosciuto accanto a me. Tutti potevano essere ammessi a quella tavola, povera ma sempre capace di offrire pane, vino, verdure e a volte anche formaggette di capra.

La tavola è il luogo di accoglienza dello sconosciuto, dello straniero, come ho sperimentato fin da piccolo. Più tardi ho imparato che, come dicevo, Abramo incontrò Dio accogliendo tre stranieri a Mamre (cf. Gen 18,1-16) e che nel mondo greco spesso gli dèi si celavano sotto le spoglie di viandanti stranieri. Siccome quelli erano tempi di fame e di penuria, ho capito ben presto che la festa nasce dall’azione del condividere più che da ciò che viene condiviso. Basta poco, ma se è condiviso, quel poco moltiplica lo stupore dell’incontro, la gioia. Anzi, l’incontro a tavola nella sua essenzialità di condivisione di pane, vino e poco altro, infiamma i cuori, diventa più facilmente ascolto dell’altro. A volte a chi giungeva fuori orario veniva offerto solo un bicchiere di vino, ma questo era un rito doveroso tra uomini che si incontravano per dirsi quanto era grama la vita. Tentativo di consolazione, antidoto alla solitudine e all’indifferenza che sembra regnare in molti rapporti. Bere insieme un bicchiere di vino era un atto che diceva “sì” alla vita nonostante tutto. Ecco, a volte mi domando perché oggi non siamo più capaci di accogliere a tavola uno straniero, uno sconosciuto. Occorre constatarlo: oggi, in un tempo in cui abbiamo cibi abbondanti sulle nostre tavole, preferiamo organizzare cene di Natale per i poveri e gli stranieri in parrocchia, purché gli sconosciuti restino tali e siano tenuti lontano!

2.     La tavola monastica, luogo della communitas in ascolto di una stessa parola

Un’altra tavola che vivo ormai da più di cinquant’anni è quella del monastero: una tavola indubbiamente particolare, una tavola sulla quale le regole monastiche, dal IV secolo a oggi, hanno scritto abbondantemente, attribuendole significati, creando norme, organizzandone lo stile. Innanzitutto nella comunità monastica c’è il refettorio, luogo molto simile alla chiesa, perché è l’altro polo di raduno della comunità. È un luogo spazioso, nel quale le tavole sono disposte a “u”, parallele ai tre lati del salone. Tra le tavole vi è una certa distanza, non solo per permettere il servizio ma per poter stare gli uni di fronte agli altri in una postura di riconoscimento, di possibile dialogo, sempre però nell’alterità affermata e riconosciuta. Nel refettorio si entra in silenzio e ciascuno va al suo posto in modo ordinato, in attesa che arrivino tutti i fratelli e le sorelle.

Ed ecco il servizio: a tavola si è serviti da fratelli o sorelle, che a loro volta saranno serviti. La rotazione del servizio a tavola è organizzata mediante turni precisi, perché ciascuno, senza eccezione, è chiamato al servizio degli altri. È un servizio di qualità, svolto con attenzione: i servitori portano le vivande dalla cucina e le fanno passare a tutti, vigilando che tutti possano prendere il cibo ed eventualmente vi sia la possibilità di prenderne una seconda volta. Servire a tavola insegna molto nel rapporto con l’altro, è fatto di sguardi, attenzione, ascolto.

Inoltre, accettare lo stesso cibo, non avere pretese, non assecondare le proprie preferenze, saper accogliere il cibo stabilito è un modo di condividere: se non per ragioni mediche, nel pasto monastico non si acconsente a eccezioni o preferenze culinarie. Il monaco non dimentica che nella Regola di Benedetto vi è un capitolo dedicato alla misura del cibo (RB 39: De mensura cibus) e un altro dedicato alla misura del bere (RB 40: De mensura potus), perché nel mangiare occorre avere misura. Soprattutto nella vita di un monaco, celibe e solitario, bulimia e anoressia sono tentazioni presenti, ben illustrate dalla lotta contro il vizio capitale della voracità o della negazione del desiderio.

Ma ciò che è tipico del pasto monastico è il regime della parola. In primo luogo si sta in silenzio, almeno un pasto ogni giorno, a volte ascoltando letture spirituali, in particolare dei padri della chiesa. Mangiare in silenzio non è negazione della commensalità, ma esercizio di consapevolezza del cibo che si mangia, del perché e del come si mangia. È esercizio per conoscere e misurare l’aggressività che abita ogni persona e che nell’atto dell’assumere cibo facilmente emerge e si scatena. È situazione nella quale si assume cibo per vivere, attraverso le vivande, e si assume anche il cibo necessario alla vita spirituale. Il monaco non ignora che nella Bibbia è attestata più volte l’immagine del “mangiare il libro” (cf. Ez 2,8-3,3; Ap 10,8-11), che significa fare proprio, fino a digerirlo nelle viscere, ciò che sta scritto come parola di Dio. Il silenzio del pasto monastico non è mai vuoto, a volte è abitato anche dall’ascolto della musica: si ascoltano insieme gli stessi suoni, le stesse armonie, le stesse parole. Sì, può sembrare un esercizio strano, ma lo ritroviamo nelle varie forme di monachesimo, da quello buddhista a quelle più recenti.

Ci sono anche pasti in cui si prende la parola: non tutti insieme, non ognuno con il proprio vicino, ma in un ordine sinfonico. Chi presiede prende la parola per primo oppure invita un altro a parlare, ed ecco nascere un dialogo ordinato, in cui le voci non si sovrappongono e tutti sono ascoltati, così come tutti possono prendere la parola. La tavola monastica è il luogo per eccellenza di esercizio della parola, un luogo veramente democratico, in cui non ci sono alcuni autorizzati e altri no, ma tutti devono ascoltare ed essere ascoltati, parlare e lasciar parlare. Non è una sinfonia facile, ma normalmente è ben eseguita, ed è significativo che risulti impossibile quando una comunità è disordinata o divisa: allora affiorano mutismi, beffe, battute fuori luogo, linguaggi caotici o violenti…

Il pasto monastico in silenzio o in ascolto di una stessa parola è un esercizio che aiuta a ricordare ciò che si dimentica facilmente altrove: la necessità di ricevere prima di dare, di ascoltare prima di parlare, di disciplinare la propria fame quando si vorrebbe mangiare ancora, di condividere il cibo insieme agli altri, di non nutrirsi mai da soli, senza gli altri. Proprio per questa capacità simbolica il pasto monastico edifica il gruppo o la comunità nel rispetto dell’alterità senza fusionalità, permette di vivere l’alleanza che è sempre condivisione tesa alla comunione. È significativo che quando si mangia insieme gli sguardi si incrociano, i volti si studiano e si contemplano e la parola di ognuno prende il suo peso: allora si può dire che il pasto è stato una celebrazione, un’arte del mangiare. Mangiare insieme insegna a vivere bene insieme e di conseguenza anche a mangiare bene. La commensalità nutre ed esprime la convivialità.

A una tavola così, che sa anche accendersi di gioia nei giorni di festa, hanno trovato posto in tutti questi anni, e continuano a trovarlo, anche i poveri e gli ultimi che sovente si affacciano con semplicità e fiducia alle porte del monastero: anziani del borgo rimasti soli nel custodire la memoria di un passato di convivialità, sediai ambulanti e braccianti a giornata in cerca del pane della fraternità quando le forze vengono meno, immigrati abituati a dare altri sapori e colori a un cibo sempre più scarso, persone smarrite per la perdita del commensale di una vita… Il cibo condiviso è anche consolazione nelle prove e forse noi monaci, proprio grazie alla solitudine vissuta in comune, siamo capaci di viverlo così, in semplicità e sobrietà.

3.     La tavola eucaristica, magistero di inclusione, di accoglienza di tutti

Infine c’è una terza tavola a cui sono assiduo, una tavola essenziale per la vita cristiana, ma che possiede anche un magistero, un insegnamento umano che vorrei mettere ora in evidenza, consapevole di non dover fare un discorso teologico in questo contesto non ecclesiale. La mia è dunque una lettura parziale, ma credo possa intrigare ogni persona che l’ascolta.

Perché al centro del luogo di assemblea liturgica c’è una tavola? Ciò è specifico dei cristiani, anche se magari lungo i secoli, nelle diverse vicende storiche, questa tavola è stata camuffata e resa irriconoscibile. Ma resta una tavola, memoria di quando, prima dell’epoca della cristianità, i credenti in Cristo si vantavano di non avere né altari né sacrifici. Questa tavola è al centro, là dove possono convergere tutti gli sguardi, in modo che tutti possano sentirsi invitati. Non a caso l’Apostolo Paolo la chiama trápeza Kyríou, “tavola del Signore” (1Cor 10,21), perché è la sua tavola, la tavola del banchetto che egli offre e al quale invita.

Sappiamo tutti che Gesù è stato invitato a tavola e ha voluto sedere accanto a giusti e a peccatori, ricchi e poveri, ma vorrei soprattutto mettere in risalto che lui stesso ha invitato alla sua tavola. Secondo la testimonianza dei vangeli questo invito è rivolto una prima volta alla folle di cui egli ha compassione, perché stanche e affamate (cf. Mc 6,34-44 e par.; cf. anche Mc 8,1-9; Mt 15,32-38). Quelli che lo seguono sono molti, affamati di una parola che sia per loro cibo, che li sostenga nel faticoso vivere quotidiano, ma affamati anche di pane. Gesù li fa sedere sull’erba verde, li fa disporre come commensali, perché non vuole solo che consumino cibo ma che si sentano commensali a un sympósion, a un banchetto (cf. Mc 6,39: “sympósia sympósia”), e siano consapevoli di condividere il cibo, di fare comunione. Nella gratitudine espressa dal ringraziamento e dalla benedizione, Gesù allora spezza i pani e i pesci e li offre a tutti, insegnando che, anche quando si ha poco, se c’è condivisione il poco è moltiplicato e sufficiente per tutti. Dono e condivisione sono la dinamica di ogni pasto.

Questo gesto viene da Gesù ripreso e reso istituzione, testamento per i suoi discepoli la vigilia della sua passione, in una cena in cui emerge innanzitutto che vi partecipano degni e indegni (cf. Mc 14,22-25 e par.; 1Cor 11,23-25). È una cena gratuita, che non deve essere meritata, anzi a essa partecipa chi l’aveva già tradito, chi l’avrebbe rinnegato e altri che capivano poco e che presto lo avrebbero abbandonato. Come Gesù non aveva disdegnato la compagnia dei peccatori, così i dodici sono presenti anche alla sua ultima cena, nessuno escluso. Offrendo pane e vino, in quella cena Gesù narra con gesti e parole quello che sta vivendo: una vita spesa per gli altri, una vita segnata dall’“amore fino alla fine” (cf. Gv 13,1). E non a caso quando, dopo la resurrezione, Gesù incontra i due discepoli in cammino verso Emmaus, dubbiosi e increduli, si fa riconoscere da loro ancora una volta a tavola, nell’atto di spezzare il pane (cf. Lc 24,35).

Così la tavola eucaristica diventa luogo di accoglienza di tutti, degni e indegni, luogo di inclusione e non di esclusione. Ecco dunque come questa tavola risplende in tutto il suo magistero: è una tavola dell’accoglienza che non esclude, anzi invita a prendervi parte, invita all’accoglienza del dono che viene fatto nella gratuità. Chi invita a tavola è colui che invita tutti – storpi, muti, ciechi, viandanti, poveri, addirittura gli scarti della società – perché possano sentire la loro dignità: sono degni di uno sguardo, di un invito a tavola, in casa, degni di sedere accanto a giusti e sani… Gesù fa cadere i muri e le barriere tra puri e impuri, e dichiara che tutti sono bisognosi, mendicanti di un amore non meritato.

La tavola del Signore è anche tavola in cui si spezza il pane, cattedra della condivisione, perché il pane quotidiano va sempre condiviso, mai può essere definito “mio” o “tuo”, ma – come insegna Gesù – è sempre “nostro pane quotidiano” (Mt 6,11; Lc 11,3). Già secondo il profeta Isaia “spezzare il pane” è un’azione che indica la condivisione del cibo con l’affamato e l’introduzione in casa, alla propria tavola, dei miseri (cf. Is 58,6-7). Gesù compie proprio questa azione, narrando con questo gesto le esigenze del comandamento dell’amore fraterno. Ma significativamente nell’azione eucaristica anche il vino è condiviso, per affermare che oltre alla sussistenza, al bisogno rappresentato dal pane, c’è anche la gioia, la consolazione che deve contraddistinguere ogni comunione, fino alla sobria ebbrezza dell’amore reciproco. Oltre al pane che dice la vita c’è il vino che celebra l’amore, che cambia il pasto in un banchetto, che rende i “com-pagni” (coloro che mangiano lo stesso pane) anche amici che cantano la vita.

Così la tavola eucaristica è tavola dell’alleanza, spazio di amore fraterno, di apertura all’altro, all’universale. Non c’è alleanza dove il patto sociale fondatore mantiene discriminazioni tra categorie diverse, tra cittadini e stranieri. L’alleanza è un progetto di una terra nella quale gli umani sono invitati al convivio, a vivere insieme, accogliendo la gratuità del dono. L’ho detto e scritto più volte: la tavola eucaristica è magistero di umanizzazione, ispirazione di una grammatica umana necessaria alla convivenza umana.

Conclusione

Questa attestazione conferitami dall’Università degli Studi di Scienze gastronomiche di Pollenzo vorrei che fosse un grazie mio e vostro indirizzato ad alcune realtà alle quali io devo tutto, perché da esse mi sento plasmato, “fatto venire al mondo” e ammaestrato.

Innanzitutto un grazie alla mia terra, che non so se definire Langa o Monferrato. Una terra non solo paesaggio, opera d’arte che in questi giorni ci presenta una tavolozza di colori diversi, come sono diversi i vitigni, ma anche magistero di umanità. Non ho mai abbandonato la vigna e l’orto, che restano il mio primo modo di amare la terra.

Un grazie di conseguenza a chi mi ha preceduto, trasmettendomi l’amore per la gastronomia, una nonna cuoca e un nonno panettiere.

Un grazie a chi mi fece il più bel regalo mai ricevuto, quando avevo undici anni, come premio per aver superato l’esame di ammissione alle scuole medie: un orto! Sì, un piccolo orto tutto mio – in “comodato gratuito”, diremmo oggi – perché i miei genitori non avevano terra.

Un grazie a Carlin Petrini, non solo un amico ma un raro amante della terra; al rettore di questa Università; e a quanti tra i presenti hanno condiviso e condividono con me la tavola dell’amicizia: del buon pane, del buon vino e ciò che amo preparare pregustando come miglior pietanza la gioia dei commensali. Se c’è una tavola che accomuna le tre di cui vi ho parlato, è proprio quella dell’amicizia: l’ho scoperta presto nel mio Monferrato, l’ho coltivata nella Torino dei miei studi, l’ho apparecchiata nella povertà dei primi tempi a Bose, l’ho gustata e la gusto ancora oggi più di ogni ricevimento ufficiale. È la tavola dell’amico con l’amico, la tavola che accoglie e custodisce ciò che brucia nel cuore, la tavola che fa assaporare com’è bello “essere insieme come fratelli e sorelle in umanità”.

Le tre tavole che ho vissuto e che vivo sono in realtà la tavola della fraternità e  dell’amicizia che oggi celebriamo insieme.