25 maggio 2020
“Noi”, “gli altri”: quante volte ricorriamo a queste categorie per comprendere problemi e giustificare atteggiamenti. Ora, se siamo più attenti, ci rendiamo conto che è arduo definire i confini tra queste due entità.
Quando accostiamo i termini “noi” e “gli altri”, iniziamo un percorso suscettibile di infinite varianti: ci possiamo inoltrare su un ponte gettato tra due mondi, oppure andare a sbattere contro un muro. Possiamo anche scoprire l’opportunità di un intreccio fecondo, dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro. Sì, perché ogni umano esiste in quanto essere-in-relazione: con quanti lo hanno preceduto, con chi gli è o è stato accanto, con il “prossimo”, con quanti ha avuto o avrà modo di incontrare, con il pensiero e le azioni di persone che non ha mai conosciuto. Addirittura, con chi non conoscerà mai, eppure contribuisce con la sua esistenza al mirabile corpo collettivo dell’umanità.
La consapevolezza dell’intima connessione tra ciascuno di noi e gli altri va ridestata con lucidità, in quest’epoca in cui si è giunti a ipotizzare la “morte del prossimo”, la scomparsa di colui che, alla lettera, è “più vicino”. Mentre veniamo quotidianamente sollecitati a una generica solidarietà con chi è lontano, siamo spinti a non vedere chi ci è accanto e attende, prima che un gesto di comunione, il semplice riconoscimento della sua esistenza. Comunichiamo a distanza, interagiamo in “tempo reale”, ci sentiamo connessi con una rete globale, ma distogliamo lo sguardo da “l’altro accanto a noi”. Ciò non discende forse dall’aver perso la consapevolezza che, in ultima analisi, “l’altro siamo noi”?
Al riguardo, possiamo prendere spunto da Michel de Certeau, teologo e antropologo, instancabile viaggiatore attraverso paesi e culture diverse, il quale definiva l’essere umano come chi cerca di “far posto all’altro”: per lui l’altro, lo straniero è al contempo “l’irriducibile e colui senza il quale vivere non è più vivere”. In questo senso possiamo declinare il rapporto tra noi e gli altri come una relazione dinamica in cui entra in gioco anche la dimensione temporale: oggi io sono quello che altri sono stati prima di me e, a loro volta, gli altri possono diventare quello che io sono o ero a un certo punto della mia vicenda.
Sì, nella dialettica tra noi e gli altri si gioca il difficile equilibrio, mai raggiunto pienamente, tra identità e convivenza. In che modo riconoscere e coltivare la propria identità senza collocarla in rapporto dinamico con l’essere accanto al diverso? E come convivere in un confronto civile tra persone, etnie e culture diverse senza aver chiara consapevolezza della propria identità e di come questa si sia formata attraverso successive, ininterrotte mescolanze con alterità che da lontane si sono fattevicine?
Scriveva Edmond Jabès: “Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero … La distanza che ci separa dallo straniero, dall’altro è quella stessa che ci separa da noi”. Che questa distanza sia ponte o baratro dipende solo da noi, giorno dopo giorno.
Pubblicato su: La Repubblica