18 maggio 2020
Cominciamo a intravedere la fine dell’epidemia che ha profondamente sconvolto i nostri stili di vita quotidiani. È successo qualcosa d’imprevedibile, di realmente impensabile. Vivevamo in un mondo malato ma non ci sfiorava l’idea di poterci ammalare così presto e in questo modo.
Ed ecco l’inattesa venuta di un messaggero devastatore, il coronavirus. Qualche virologo faceva remote ipotesi sulla possibilità di una tale irruzione. Solo alcuni, sentinelle capaci di discernere i passi dell’umanità, denunciavano quasi profeticamente, anche se in modo confuso, che “correvamo troppo, dovevamo fermarci”. Senza un cambiamento concreto – dicevano – avremmo accelerato una crisi dalle proporzioni sconosciute e impensabili.
È significativo che questo flagello si è abbattuto su una società allenata da decenni a pensare la “crisi”, esercitata a combatterla sotto diverse forme: la crisi economica, quella finanziaria, quella del tessuto sociale. Tutto ciò nel quadro dei nostri paesi ricchi, che fanno parte del “primo mondo”, dove regnano il mercato, lo sviluppo, il consumo, la vita opulenta, mentre restano sempre più nascosti i deboli, i poveri, gli “scarti”. E così le porzioni di umanità “allegre e vincenti” hanno dovuto fare i conti con la fragilità, la sofferenza, fino a una morte disperante.
In questo tempo ho ascoltato tanta gente, nella solitudine del mio eremo ho molto pensato e cercato di interpretare ciò che stava accadendo. Nell’ascolto ho percepito molta paura, finanche angoscia, per questo virus che si aggirava tra di noi invisibile e sconosciuto; un virus di fronte al quale non sono possibili le difese tipiche dei ricchi, di quanti possono contare sul proprio potere. In particolare gli ultrasettantenni, tempestati dai bollettini dei morti e dalla richiesta di “mettersi in coda” rispetto ai più giovani e forti di loro, hanno avuto momenti di sconforto. Quasi tutti hanno pensato alla concreta possibilità di venire contagiati e morire. Mai – mi dicevano – abbiamo avuto la morte tanto presente, mai siamo stati così consapevoli della nostra fragilità. In tal modo la crisi è diventata una domanda sulla fragilità e sul limite della morte, che nessuno può evadere.
Abbiamo anche scoperto i limiti della scienza, della medicina, di tante realtà che prima ci sembravano garanzie rassicuranti, a livello personale e sociale. Molti dicono: “L’abbiamo scampata. Presto festeggeremo!”. Tale reazione vitalistica è giustificata ma non deve oscurare in noi il senso del limite che abbiamo (ri)scoperto, né l’evento della morte, che attende ciascuno e può giungere imprevisto.
Non credo che in questa crisi siamo automaticamente diventati migliori, più solidali, più capaci di attenzione all’altro. Ciò dipende dalla nostra volontà e dalle nostre precise scelte, da rinnovarsi ogni giorno. Ma se oggi siamo più consapevoli del limite e della morte allora – come afferma il filosofo umanista Salvatore Natoli – “tenendo presente la morte, saremo meno inclini a prevaricare sugli altri”. Già questo non sarebbe poco!
Pubblicato su: La Repubblica