La Stampa - 23 dicembre 2019
di Enzo Bianchi
Siamo alla vigilia del Natale, una festa che ancora oggi in occidente coinvolge tutti, anche se in modi diversi. La nostra è una società post-cristiana, segnata da molta indifferenza verso la religione, e tuttavia in occasione del Natale si sente il bisogno di fare festa insieme, di segnare questi giorni come festivi, giorni non ordinari. Quindi ecco avvenire lo scambio dei doni, il cercare di rendere la tavola un banchetto per incontrarsi e stare insieme, lo strappare qualche ora a quella solitudine che per molti è quotidiana. Soprattutto i bambini sono coinvolti in questa festa, che si cerca ancora di vivere in famiglia, sforzandosi di superare insieme molte difficoltà causate dalla frammentazione dei legami familiari e affettivi. Natale deve essere buono, in tutti i sensi, come esprime anche l’augurio che ci si scambia.
In questo Natale possono sorgere molte domande, ma io vorrei esprimerne solo due. La prima riguarda ciò che ha dato origine a questa festa: che cosa significa Natale? Purtroppo oggi sono pochi quelli che lo sanno. Natale, cioè Natività, è memoria di un evento nella storia dell’umanità: all’interno di Israele, popolo creatore della speranza e dell’attesa, da una famiglia ebrea è nato un figlio, Jeshu‘a, Gesù, un ebreo marginale. Una volta cresciuto, come uno degli antichi profeti, egli parlerà ai giudei del loro Dio, lo racconterà, ne insegnerà la volontà, interpretandola in un modo profetico: questo gli procurerà una comunità di seguaci ma anche ostilità da parte di molti e infine una morte infame. Era un uomo straordinario perché umanissimo e i suoi discepoli lo hanno letto come inviato del Dio di Abramo, il Messia atteso, l’immagine del Dio invisibile.
Ecco Gesù, il Signore dei cristiani. La sua nascita fu collocata nei giorni festosi del sole nascente, nella notte più lunga dell’anno, quando all’alba il sole torna a regnare sulla notte. Questo è il fondamento della fede cristiana: i credenti cristiani sentono tale evento come buona notizia, Vangelo, e dunque lo celebrano, lo cantano, lo festeggiano, lo comunicano al mondo.
La seconda domanda riguarda il modo in cui oggi noi viviamo il Natale. Non possiamo negare che in questa festa i cuori si fanno più generosi e cresce l’attenzione verso i poveri e le persone sofferenti: vi è in questo comportamento qualcosa delle esigenze cristiane. Tuttavia, cristiani e non cristiani sono più che mai invitati dal Natale a interrogarsi su come affermano e vivono concretamente la fraternità. La grande promessa della modernità – libertà, uguaglianza e fraternità – deve ancora attestarsi, soprattutto perché la libertà e l’uguaglianza sono chiamate a trovare un fondamento nella fraternità e nella sororità, altrimenti restano esili e fragili!
A livello mondiale, nei rapporti tra popoli, culture e religioni, l’orizzonte oggi da scrutare e da affermare è quello della fraternità: l’altro è un fratello, una sorella, semplicemente in quanto essere umano come me. Le feste natalizie non sarebbero forse l’occasione di mostrare anche con gesti e comportamenti questa verità, proprio in un’ora in cui rispuntano tentazioni razziste, esclusioni degli altri, dei diversi, e addirittura appaiono ombre antisemite, soprattutto in Europa?
Quando da piccolo facevo il presepe, mi veniva insegnato che in quel panorama, insieme a membri del popolo di Israele – la famiglia di Gesù, i pastori e gli artigiani –, c’erano anche pagani orientali, i sapienti magi, tra cui uno nero, africano; c’erano poveri e girovaghi, uomini e donne, tutti convergenti verso il luogo della nascita di una vita nuova. Solo sullo sfondo, lontano, si stagliava il castello del tiranno, Erode. Basterebbe quel presepe a ricordarci la fraternità come impegno e come unica vera possibilità per fare festa insieme. Buon Natale a tutti, tutti!
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