Osservatore Romano
25 settembre 2019
di Enzo Bianchi
A che punto è l’annuncio del vangelo come buona notizia nella nostra società italiana? Con che linguaggio possiamo rendere le nostre parole su Dio comprensibili, prima ancora che accettabili e convincenti? E se dopo secoli di cristianità — in cui esigenze evangeliche, precetti ecclesiali, morale privata, etica pubblica, diritto civile, istituzioni statali viaggiavano in sostanziale armonia — sono bastati pochi decenni di secolarizzazione perché molti battezzati vedessero prevalere attorno e dentro di sé immagini di Dio negative e malsane, com’è possibile ritrovare la freschezza del vangelo e ridare splendore al volto di Cristo, il Figlio di Dio, l’uomo Gesù che ha saputo narrarci il Padre con parole che nessuno aveva mai udito prima?
A queste domande, così brucianti ed esigenti, cercano di rispondere con pacata risolutezza le pagine che seguono. L’autore non si attarda a distribuire colpe e responsabilità a quanti lo hanno preceduto nell’arduo e affascinante compito di trasmettere la fede. Anzi, grato per il suo personale itinerario di credente — un cammino in un certo senso da «privilegiato», che gli ha risparmiato le secche di una fede immiserita a religione di campanile — don Cosentino supera di slancio la tentazione di rammaricarsi per un’epoca che, pur con tutti i suoi evidenti limiti, ha comunque consentito alla fiaccola della fede di giungere fino ai nostri giorni.
L’analisi dell’impasse che la corsa del Vangelo nel mondo contemporaneo conosce è lucida e tagliente, ma non è né impietosa né arrogante, anzi è colma di attenzione, di cura, di sollecitudine pastorale, di misericordia verso le persone, siano esse ormai lontane dalla compagine ecclesiale, magari preda di un’acidità verso un passato di pesi e asfissia, oppure stancamente assestate in una condizione senza molte prospettive di speranza vitale.
L’autore non evita le questioni più scottanti, né le problematiche a volte incancrenite nel vissuto ecclesiale quotidiano, né tace sull’affievolirsi di una luce che fatica a illuminare e scaldare il cuore dei fratelli e delle sorelle in umanità. Ma non vi è mai una sola riga di scoramento, di accettazione passiva delle contraddizioni al Vangelo: basta tornare ogni volta con risoluta determinazione alla domanda maestra: «Le nostre immagini di Dio corrispondono a quella che ci ha donato Gesù?». Se il criterio decisivo è questo, allora tutto può riprendere vita e senso, allora la cenere può essere scostata e la brace riprendere ad ardere, allora lo «sta scritto» torna a essere «Parola di vita», che ridesta alla vita.
È significativo che il paradosso del titolo provocatore — Dio «non è quel che credi» — finisce per valere anche per l’ateo e il non credente: «Dio non è quello cui tu non credi!». Sì, perché le immagini distorte di Dio che noi cristiani coltiviamo in noi stessi non corrispondono al Dio di Gesù Cristo narrato e testimoniato nei Vangeli. Non dovremmo allora stupirci se questo volto sfigurato, deturpato, estraneo ai tratti evangelici di Gesù di Nazaret suscita rigetto o, al meglio, indifferenza nei nostri contemporanei. Si tratta quindi, come suggerisce nelle righe finali l’autore, di «tornare a leggere, meditare e pregare il Vangelo». Solo così sarà possibile l’incontro personale con Gesù e l’affascinante riscoperta dell’autentica immagine di Dio, quell’immagine che ogni essere umano custodisce indelebile nel più profondo del proprio essere.
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