14 ottobre 2017
di Enzo Bianchi
La pena di morte “è in sé stessa contraria al vangelo”. Non sfuma le parole papa Francesco nell’affermare l’“inammissibilità” della pena capitale. Insolita è l’occasione, pregnante l’esempio e decisivo il criterio di fondo scelti da papa Francesco per quella che è ben più di una riflessione su come “custodire la dottrina” cristiana facendo al contempo “proseguire” il cammino della chiesa nella storia.
L’occasione è il venticinquesimo anniversario del Catechismo della Chiesa cattolica, voluto da papa Giovanni Paolo II perché desse conto delle “esplicitazioni della dottrina che nel corso dei tempi lo Spirito santo ha suggerito alla Chiesa” e per “illuminare con al luce della fede le situazioni nuove e i problemi che nel passato non erano ancora emersi”. È nella linea avviata dal concilio che si collocava dunque quello sforzo di traduzione nel quotidiano delle istanze evangeliche. Non a caso papa Francesco pronuncia il suo discorso commemorativo l’11 ottobre, anniversario dell’apertura del Vaticano II, e cita quello tenuto cinquantacinque anni prima da Giovanni XXIII che “aveva desiderato e voluto il concilio … soprattutto per permettere che la Chiesa giungesse finalmente a presentare con un linguaggio rinnovato la bellezza della sua fede in Gesù Cristo”. Rievocare la prima edizione del catechismo serve quindi a ribadire l’importanza di armonizzare sempre due istanze altrettanto decisive: da un lato “custodire il tesoro prezioso” della dottrina cristiana e, d’altro lato, farla progredire così che il cammino della chiesa prosegua.
L’esempio che papa Francesco usa per dimostrare che conservare la dottrina implica anche la disponibilità a modificarne alcune espressioni è un tema delicato e controverso: la pena di morte. Se in un passato neanche troppo lontano la forma estrema di pena era addirittura prevista nel codice penale dello Stato Pontificio – e di questo passato tragico papa Francesco fa ammenda e si assume le responsabilità – il Catechismo del 1992 non aveva ritenuto di dover prendere le distanze da questa “pena che lede pesantemente la dignità umana”, ritenendola possibile, seppur solo in casi estremi. L’edizione riveduta del 1997 restringe ulteriormente i casi in cui può essere tollerato comminare la morte come “l’unica via praticabile per proteggere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”, ma non vi è sconfessione assoluta e radicale. A vent’anni di distanza papa Francesco – che già aveva bollato l’ergastolo come “pena di morte nascosta” perché “priva la persona non solo della libertà ma anche della speranza” – va alla radice del problema: “Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale” e arriva a definire la pena di morte “in sé stessa contraria al vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana … È inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”. Di conseguenza bisognerà trovare il modo di trasporre anche nel testo del catechismo questo sviluppo decisivo della comprensione del dettato evangelico. Bisognerebbe inoltre che anche nel dialogo interreligioso si affrontasse con rinnovata consapevolezza questo tema, perché l’accettazione della pena capitale da parte di una religione ostacola il cammino di umanizzazione cui ogni dialogo sincero dovrebbe tendere.
E proprio in questo senso emerge il terzo elemento del discorso di papa Francesco: il criterio di fondo che deve guidare la chiesa nel suo compito di annunciare il messaggio cristiano. La condanna della pena di morte da parte dei cristiani non viene infatti da un loro adeguarsi alla mentalità mondana – anzi, in questo senso lo “spirito del tempo”, quel che pensa “la gente” sembra andare sempre più in direzione opposta – bensì da quella che dovrebbe essere l’unica fonte del loro pensare e del loro agire: il vangelo. “Non è il vangelo che cambia – affermava papa Giovanni – siamo noi che lo comprendiamo meglio”. “In sé stessa contraria al Vangelo”: tanto basta perché la pena di morte sia “inammissibile”, indifendibile cristianamente, in qualsiasi caso, circostanza e motivazione. L’insegnamento non muta perché muta il buon senso comune, muta invece quando e dove si approfondisce la comprensione del vangelo, perché “la parola di Dio non può essere conservata in naftalina – secondo la colorita espressione popolare usata da papa Francesco – come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti”. Infatti “la parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare”. Un compimento che nemmeno gli uomini religiosi di ogni tempo, che si vogliono difensori della tradizione come se fosse una realtà statica, possono fermare.
Pubblicato su: La Repubblica