Osservatore Romano - 02 giugno 2016
di Enzo Bianchi
Dal 2 al 4 giugno si svolge a Bose il XIV convegno liturgico internazionale sul tema «Viste da fuori. L’esterno delle chiese». All’incontro intervengono, tra gli altri, il vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, Dario Edoardo Viganò, prefetto della Segreteria per la comunicazione, Antonio Paolucci, direttore dei Musei vaticani, Paolo Portoghesi, Cino Zucchi. Anticipiamo alcunistralci dalla prolusione del priore di Bose.
Gesù applica ai discepoli che vivono le beatitudini da lui consegnate due immagini in contrasto, in opposizione tra loro. Da una parte, il sale della terra che scompare nel cibo, anzi svolge la sua funzione proprio scomparendo e dando sapore, ma che se perde la sua capacità di salare non serve più a nulla, può solo essere gettato via e calpestato dagli uomini. Dall’altra, la città collocata su un monte, che è visibile anche da lontano; allo stesso modo, la luce si fa vedere, proprio perché brilla, fa luce: questa è la sua ragion d’essere e per questo la lampada è posta sul candelabro e non coperta dal moggio, se non per es- sere spenta.
C’è dunque una chiara polarità nelle immagini attraverso le quali Gesù legge la realtà dei discepoli, della sua comunità e quindi della chiesa: la polarità tra nascondimento e manifestazione-visibilità.
Queste due opposte metafore sono sempre state invocate dai cristiani, ora l’una ora l’altra, come immagini per esprimere la loro presenza nel mondo, e di fatto nelle diverse aree culturali e nei diversi tempi della storia le chiese hanno dato vita a realizzazioni conseguenti a esse nel collocarsi dei cristiani nella compagnia degli uomini.
Questa polarità, questa tensione è di ordine teologico-spirituale, e occorrerebbe una seria e profonda meditazione in merito da parte del popolo di Dio, non solo di qualche teologo. In ogni caso, mi sembra di poter affermare che queste due opzioni, quando non le si lascia in feconda tensione ma le si afferma l’una contro l’altra, danno origine a posizioni ideologiche e provocano o rafforzano l’antagonismo tra chiesa e società; oppure, al contrario, chiedono un dissolvimento della presenza cristiana nel mondo. Mantenere tale tensione e non porre in alternativa le due esigenze non è facile; la storia lo dimostra, mediante l’eccessiva oscillazione tra stagioni di ossessione della visibilità, dello “spettacolare”, per farsi vedere dagli altri, e stagioni di ricerca spasmodica di nascondimento, all’insegna del non apparire o addirittura dello “sparire”. Certamente la mia generazione post-conciliare è stata segnata da questa tensione: da un lato la crisi post-conciliare della chiesa l’aveva resa afona, timida e, in reazione a un’epoca di restaurazione della cristianità, a volte ripiegata su di sé e muta. A questa linea ben presto si è contrapposta, in una crescita continua fino alla stagione di Papa Francesco, quella di un’ansia di presenza efficace nella società, fino alla ricerca del potere «per il bene della chiesa», fino a fare della visibilità lo scopo della militanza cattolica.
Nello stesso tempo, non si dimentichi il sorgere di “spiritualità” serie, anch’esse debitrici della storia, che propugnavano il nascondimento ispirandosi alla vita quotidiana nascosta di Gesù a Nazaret, scegliendo di conseguenza la marginalità, la povertà di mezzi e rifiutando in modo testardo ogni logica di visibilità (si pensi a Charles de Foucauld, ai piccoli fratelli e alle piccole sorelle). La scristianizzazione della società, letta come reazione alla cristianità trionfante e dominatrice, richiedeva un’astinenza da molti segni visibili, il vivere “come loro” — secondo il titolo di un celebre libro di René Voillaume — dove “loro” sta per i poveri quotidiani delle nostre periferie.
Queste considerazioni vogliono essere una breve introduzione ai lavori del nostro XIV convegno liturgico internazionale, dove non è la ricerca teologica che prevale, eppure deve essere presente, perché una chiesa-edificio deve sempre rispondere all’ecclesiologia di chi la abita come luogo di assemblea. Dobbiamo affermare senza paura che la chiesa oggi è plurale, che in essa a buon diritto coesistono diverse ecclesiologie e spiritualità alle quali si ispirerà la costruzione delle chiese-edifici, nella consapevolezza che esse “parlano”, sono eloquenti, dicono chi è la chiesa, raccontano come la chiesa si pensa, testimoniano il modo e lo stile della sua collocazione nella società, tra le donne e gli uomini. Chi passa accanto alla basilica del Sacré-Cœur a Parigi, vede una chiesa che ha una parola specifica; chi invece passa in rue de Sèvres, si accorge appena di una piccola scritta che segnala la presenza dentro un palazzo di una chiesa dei gesuiti, l’église Saint Ignace. Allo stesso modo, una chiesa monastica non può essere percepita, anche dal di fuori, come una chiesa parrocchiale.
Per esempio, la straordinaria chiesa cistercense del Thoronet, una delle cosiddette tre “sorelle provenzali”, insegna addirittura per la mancanza del portale e per la presenza di una porta laterale.
In ogni caso, non si dimentichi il messaggio del Vangelo, con le immagini del sale che si nasconde e della città, della luce che sono visibili. Oggi abitiamo nella società della spettacolarizzazione e potremmo essere tentati di entrare in concorrenza con essa, confidando nella visibilità della chiesa e di fatto accettando il primato dell’apparire; nello stesso tempo— anche se pare una contraddizione — assistiamo a un atteggiamento individuale improntato alla tentazione di scomparire.
Nella sua recente opera Disparaître de soi (Paris, Métailié, 2015), David Le Breton denuncia questa “tentazione contemporanea” (sottotitolo del libro), questa passione dell’assenza, che nega ogni segno di identità e ha paura dell’essere riconosciuti. Nel suo La discrétion (Paris, Autrement, 2013; traduzione italiana, L’arte dello scomparire, Milano, Il Saggiatore 2015), Pierre Zaoui traccia una via che dichiara invenzione monoteista la discrezione, la quale è altra cosa dall’arte dello scomparire, come invece sembra trasparire dal titolo italiano (sottotitolo in francese). Davvero non è facile per i cristiani oggi, nell’incertezza sul domani delle loro chiese, non cadere preda delle opposte tentazioni della visibilità spettacolarizzata e “minacciosa” — che nasce sempre dal risentimento, dalla paura — o del nascondimento rinunciatario e impersonale.
Le chiese che vengono costruite, viste da fuori, devono essere evangelizzatrici nel senso che devono essere “buona notizia”, non notizia che si impone, non luce che abbaglia, non nascondimento o mescolamento insignificante. Le parole di Gesù che ho scelto come filo rosso di questa prolusione possono ispirarci e richiamarci a una forma che sia quella assunta nell’incarnazione dalla Parola di Dio. Questo è il Vangelo che innanzitutto va vissuto da uomini e donne, ma anche narrato dalle nostre chiese, quando sono viste da fuori.
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