La Stampa
Al Salone del libro Enzo Bianchi dialoga con Massimo Recalcati, sabato 14, ore 15, all'Auditorium, sul suo ultimo libro «Amore e misericordia» (Edizioni San Paolo. Alle 17,30, il priore di Bose sarà in Sala Blu, con Alessandro Leogrande e Luigi Manconi, autore dì «Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica» (Minimum Fax).
Parlare di misericordia e tentare di viverla significa anche sapersi fermare per avvicinarsi all'altro, rendersi prossimo a chi incontriamo: operazione assolutamente necessaria per noi umani, perché io e l’altro siamo innanzitutto corpi, ed è nella vicinanza dei corpi, nell’osare la carne, che può avvenire l’incontro. Solo in questa situazione l’altro può essere ascoltato mentre esprime il suo bisogno. Dovremmo imparare a porre più spesso a quanti incontriamo una domanda che nei vangeli troviamo in bocca a Gesù: “Cosa vuoi che io faccia per te?” (Mc 10,51). Nessuna azione imposta, nessuna decisione aprioristica di cosa fare a servizio dell’altro, ma innanzitutto ascolto, atteggiamento semplice eppure difficilissimo per ciascuno: ascoltare per obbedire al bisogno reale, alla povertà concreta dell’altro e non per tacitare la nostra smania di “fare il bene”. Solo così il povero, il bisognoso non risultano un oggetto o un pretesto per la nostra azione, ma si ergono come in verità li ha letti la tradizione biblica: soggetti davanti ai quali inchinarci, sacramenti di Dio, segni capaci di indicarci il Signore; sono i veri maestri, i detentori di un magistero silenzioso che dobbiamo discernere e accogliere. Solo in questa situazione di autentico ascolto del povero possiamo metterci al suo servizio e diventare strumenti della carità, dell’amore di Dio.
Noi umani non sempre siamo cattivi come ci giudichiamo: possiamo constatare che in noi c’è la capacità della misericordia, di questo sentimento che si sprigiona dalle nostre viscere di fronte al male. Poi però non abbiamo tempo di sostare accanto al bisogno dell'altro, andiamo oltre (cf. Lc 10,31-32) e i nostri peccati diventano soprattutto peccati di omissione. Raramente facciamo azioni cattive contro i bisognosi, ma quasi sempre non facciamo nulla! Questo è il problema, perché “non aver fatto” è il rimprovero che il Figlio dell’uomo rivolgerà nel giorno del giudizio: “Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato” (Mt 25,42-43).
Come dimenticare il racconto dell’incontro tra Gesù e l’uomo ricco? A quell’uomo che dice di aver osservato tutti i comandamenti fin dalla giovinezza (cf. Mc 10,19-20 e par.) Gesù, secondo l’apocrifo Vangelo degli Ebrei, replica: “Come puoi dire: ho osservato la Legge e i Profeti? È scritto nella Legge: 'Tu amerai il tuo prossimo come te stesso', ed ecco che un gran numero dei tuoi fratelli, figli di Abramo sono vestiti di cenci e muoiono di fame mentre la tua casa è piena di beni in abbondanza e assolutamente nulla esce da essa per loro”.
Sì, esiste un peccato di omissione verso i bisognosi, nient’altro che omissione! Ma quante sono le forme di povertà? Tante quanti sono i bisogni! E la misericordia deve spingerci a ”fare misericordia”, a passare dal sentimento così naturale in ogni persona alla scelta di impegnarsi e fare concretamente gesti e azioni che siano cura dell’altro, aiuto affinché possa uscire dalla condizione di bisognoso. Se una persona sa praticare verso l’altro le operazioni del vedere, dell’avvicinarsi, dell’ascoltarlo nel suo bisogno, allora farà misericordia, si metterà a servizio dei poveri, sentendo in sé prepotente la responsabilità verso l’altro che è fratello o sorella, che è la mia carne, che – se sono cristiano – è la carne di Cristo, come ama ricordare papa Francesco.
In un libro dal titolo emblematico, La morte del prossimo (Einaudi 2009), lo psicoanalista Luigi Zoja, dopo aver ricordato l’annuncio della morte di Dio da parte di Nietzsche, ha aggiunto che è avvenuta, per l’appunto, anche la morte del prossimo, perché oggi viviamo misconoscendo soprattutto la prossimità. La società tecnologica elimina sempre di più la dimensione della prossimità dei vissuti e crea una concreta distanza tra gli umani. Non c’è più l’altro che sta vicino, quello su cui poso la mano, e così il trionfo dell’indifferenza e dell’individualismo esasperato conduce alla morte della carità, o meglio al non poter più esercitare la carità, la solidarietà, la com-passione come soffrire insieme. Ce ne stiamo ciascuno lontano dagli altri per indifferenza o per paura; perché non abbiamo tempo e corriamo dal mattino alla sera; perché non abbiamo più voglia dell’altro, sempre più lontano, sempre meno invitato e accolto in casa nostra; perché non abbiamo più desiderio di prendere tra le mani il volto e le mani di un altro. Ora la carità a distanza, virtuale, impersonale è solo filantropia che si nutre di sentimenti e di buone dichiarazioni, ma che si rivela ostacolo fondamentale all’esercizio dell’amore e della carità verso il corpo dei poveri, verso i bisognosi che vivono accanto a noi e dei quali tragicamente neppure ci accorgiamo.
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