La Repubblica - 15 marzo 2016
di Enzo Bianchi
Dobbiamo confessarlo: ciò che di Gesù ancora oggi scandalizza non sono le sue parole di giudizio, le sue parole severe, a volte dure; non scandalizza neppure il suo operare, perché si riconosce il suo “fare il bene” (cfr. Mc 7,37; At 10,38). No, ciò che scandalizza è la misericordia, interpretata da Gesù in un modo che è all’opposto di quello pensato dagli uomini religiosi, da noi! A volte sembra che la misericordia sia invocata da Dio, sia augurata e facile da mettersi in atto, e invece — dobbiamo riconoscerlo umilmente — in tutta la storia della chiesa la misericordia ha scandalizzato, e per questo è stata poco esercitata. Quasi sempre è apparso più attestato il ministero di condanna piuttosto che quello della misericordia e della riconciliazione. Basterebbe leggere la storia con attenzione, soprattutto quella dei concili, per vedere con quale sicurezza lungo i secoli si è usata la parabola della zizzania (cfr. Mt 13,24-30), pervertendola. In essa Gesù chiede di non sradicare la zizzania, anche se minaccia il buon grano, e di attendere la mietitura e il giudizio alla fine dei tempi. E invece nella chiesa si è indicato il nemico, il diverso come zizzania, autorizzando il suo sradicamento, fino alla sua condanna al rogo. O si guardi alle nostre storie personali: quanto ci è difficile perdonare, fare concretamente misericordia, lasciarci commuovere da chi è nel bisogno, fino a fare per lui il bene, omettendo di compiere ci˜ che avevamo pensato contro di lui...
Di più, se è vero che la parola misericordia sembra indicare nella nostra società un sentimento che manca di vigore e di verità — per questo si arriva a dire: “La misericordia, troppo facile!” —, quando poi essa è praticata in modo autentico, in realtà turba, desta obiezioni. Questo perché la misericordia è temibile più della giustizia: “é un ripudio del male in nome della condivisione di un amore”. Il messaggio della misericordia scandalizza, non è capito da quanti si sentono giusti, in pace con Dio (e per i quali Gesù non è venuto: cfr. Mc 2,17), mentre invece è compreso e atteso da chi si sente nel peccato, bisognoso del perdono di Dio. I credenti “religiosi” di ieri e di oggi hanno difficoltà a sentirsi fratelli e sorelle dei peccatori, delle peccatrici, perché nella loro vita non hanno commesso peccati “gravi”, quindi si mettono dalla parte dei giusti, di quelli che possono vantarsi di qualcosa presso il Signore: vantarsi di non aver sbagliato gravemente. é stato così durante il ministero di Gesù, è stato così nella storia della chiesa, è così ancora ai nostri giorni, quando siamo interrogati da papa Francesco proprio sulla nostra capacità di misericordia: misericordia della chiesa, misericordia di ognuno di noi verso chi ha sbagliato o chi ha bisogno del nostro amore. Spesso siamo disposti a fare misericordia se c’è stata punizione, castigo di chi ha fatto il male (e diciamo che questa è giustizia!), se il peccatore è stato sufficientemente umiliato e solo se chiede misericordia come un mendicante. In ogni caso, stabiliamo dei precisi confini alla misericordia, perché pensiamo che certi errori, certi sbagli, certe scelte avvenute nel male e non piè riparabili debbano essere punite per sempre dalla disciplina ecclesiastica: per alcuni errori dai quali non si può tornare indietro non c’é misericordia, dunque la misericordia non é infinita, ma può essere concessa solo a precise condizioni...
Ecco il nostro tradimento del Vangelo, ecco come la misericordia ci scandalizza. In altre parole, la sequenza “delitto e castigo”, titolo del celebre romanzo di Fedor Dostoevskij, è sedimentata dentro di noi, è incastonata nella nostra postura di credenti, di uomini religiosi, come sigillo di una giustizia retributiva che si manifesta come punitiva e meritocratica; ma dovremmo interrogarci se tale modo di pensare ed esprimersi sia conforme al Vangelo di Gesù Cristo! Perché non riusciamo a comprendere che la santità di Dio non splende quando non c’è peccato nell’uomo, ma quando Dio ha misericordia e perdona? Perché non riusciamo a comprendere che l’onnipotenza, la sovranità di Dio si mostra soprattutto perdonando, come attesta l’orazione colletta della XXVI domenica del tempo per annum: “Deus, qui omnipotentiam tuam parcendo maxime et miserando manifestas...”? Solo alla luce di questa santità di Dio, di questa sua onnipotenza, si può vivere come strumento di buone opere il “non disperare mai della misericordia di Dio”.
Pubblicato su: La Repubblica