Ci sono Natali che abbiamo vissuto ma che non potremmo raccontare se altri non ce li avessero narrati tante volte con allusioni, rievocazioni di particolari, ricordi fugaci come lampi al cuore di una conversazione. Questo perché eravamo troppo piccoli per conservarne coscienza: li avevamo vissuti e dentro di noi emozioni e paure si erano innestate per sempre, ma senza il racconto fattoci da altri non avremmo avuto la capacità di plasmare le sfocate circostanze nelle quali eravamo stati coinvolti.
A me capita qualcosa di analogo riguardo a episodi della mia infanzia: nelle mia mente appaiono scene nitide, vissuti e scene autentiche che mi chiedono di essere raccontate per non essere perdute e morte per sempre. Così, grazie a questi racconti, resta impresso nella mia mente soprattutto il Natale di guerra del 1944, quando avevo solo 20 mesi. Stavamo per metterci a tavola quando fecero irruzione quattro soldati tedeschi che chiesero ridendo a mio padre che facesse loro la barba. Tutti ammutolirono mentre gettavano a terra in un angolo della casa il tascapane con le bombe e i loro mitra. Mia madre mi afferrò tra le braccia e mi portò via in casa della vicina, piena di terrore, aspettando che i tedeschi se ne andassero senza farci del male. E così mio padre, che stava con i partigiani e rientrava ogni tanto fugacemente a casa perché aveva la moglie malata con l’unico figlio piccolo, si mise a radere i tedeschi e, quando se ne andarono, diede loro anche le poche gallette che avrebbero dovuto essere il nostro dolce di Natale… La donna che mi aveva in custodia disse: “Deo gratias! Diamogli anche il cappone, purché se ne vadano e non si facciano più vedere! Ci mancava solo che avessero preteso di fermarsi per il pranzo!”. Quello del 1944 fu per me e la mia famiglia un Natale rovinato, eppure il sentimento che regnava attorno alla tavola silenziosa era quello di incredulità per lo scampato pericolo.
Quanto ai Natali successivi, le storie e i racconti dei grandi si mescolano e lasciano progressivamente il posto alle immagini impresse nella mia memoria personale di bambino di un paese del Monferrato di circa mille anime – come si diceva allora – o duecentocinquanta focolari… Dal cucuzzolo al centro del paese la chiesa dominava un gruppetto di case rannicchiate attorno, che in inverno erano sempre coperte da una nuvola: i camini la alimentavano creando quella cappa grigia che dimorava per giorni e rendeva il sole pallido, un sole “malato”, come dicevano i vecchi. Il freddo, la galaverna e la neve favorivano quell’aura di deserto che avvolgeva il paese: rara la gente per strada, ogni evento si spostava in casa, al riparo e al caldo. Dalle finestre si poteva riconoscere la vita che pulsava dietro le tendine ricamate: passando per la via centrale, si scorgevano allora donne in costante movimento, vecchi seduti accanto al camino e alla stufa, bambini irrequieti che giocavano con niente…
Così arrivava il Natale molto atteso, l’unica aspettativa in quella stagione in cui la luce era ridotta a meno di otto ore al giorno: stagione di ritiro in casa e di poco lavoro, stagione che faceva anche paura a molti perché il non aver nulla da fare da mattino a sera metteva ansia. Natale invece lo si doveva preparare: i bambini addobbavano l’albero che erano andati a cercare nel bosco, alcuni preparavano il presepe, e tutti erano protesi verso i regali, i doni di Gesù bambino posti sotto l’albero o accanto al presepe: piccole, povere sorprese che tuttavia costituivano fonte di gioia perché il quotidiano era segnato dal mangiare sobrio e, per alcune famiglie, anche dalla fame… Quante cene fatte di latte e polenta nelle case dei miei vicini, come il falegname-sacrestano che aveva sette figli!
Ma il lavoro più grande ricadeva sulle donne che a volte si univano alle loro vicine per preparare un pranzo di Natale degno delle attese: non molte pietanze, ma bisognava comunque che segnasse la festa, l’unica grande festa dell’anno familiare. La vigilia di Natale si faceva digiuno perché così chiedeva la chiesa, ma tutti lo osservavano volentieri, pregustando già l’abbondante pasto del giorno dopo. La vigilia era anche il giorno della preparazione dei ravioli, opera comune per eccellenza che richiedeva la collaborazione di molte donne: non solo per preparare, stendere la pasta e confezionare quegli straordinari quadratini ripieni di sapore, ma anche per predisporre in anticipo la farcita… Chi portava il coniglio camodato, chi forniva l’arrosto, chi lo spezzatino di maiale o anche, rara preziosità, la gustosa faraona. Tutto concorreva alla confezione del re del pasto: il raviolo che, condito con sugo d’arrosto, costituiva il piatto di Natale che tutti – bambini, vecchi, uomini e donne – attendevano come una liturgia, l’elemento essenziale del banchetto… Il resto era costituito da portate preparate in anticipo: il salame, i peperoni con le acciughe, l’insalata russa, apparsa sulle tavole popolari proprio nell’immediato dopoguerra, e poi il cappone, ingrassato apposta per il pranzo di Natale.
Ciò che contraddistingueva il Natale era lo stare in casa: a nessuno veniva in mente di uscire e persino il bar era chiuso. Si usciva solo per la messa di mezzanotte, le donne anche per quella del mattino, ma poi l’intera famiglia restava riunita in casa dal mattino alla sera e questo sentimento di comunione era tale da far sì che le persone sole o quanti avevano conosciuto un lutto venivano invitati dai vicini o dai parenti più prossimi: quel giorno nessuno si doveva sentire solo. A casa mia eravamo solo in tre e allora invitavamo sempre i vicini, Pinot e Gepin, poi Etta e Cocco, la maestra e la postina, e non mancava mai una “lingera”, un mendicante girovago che si sarebbe accontentato anche di un po’ di caldo nella stalla, ma che mio padre ha sempre voluto che sedesse a tavola con noi: ora un sediaio, ora un arrotino, ora un ramaio, ma sempre a tavola c’era la sedia per l’ospite perché, diceva mio padre, solo se condiviso con altri il cibo abbondante era benedizione e non maledizione. Durante il pasto a volte le voci si alzavano oppure qualcuno restava ammutolito, ma questo era risaputo e non causava tristezza: la vita è così, un duro mestiere da prendere con i suoi alti e i suoi bassi, con le sue gioie e le sue disperazioni.
Dopo il pasto, ci si divideva con tacita intesa: gli uomini giocavano a carte a un tavolo, le donne sedute attorno a un altro conversavano ininterrottamente, i bambini correvano qua e là o cercavano nel fienile e nelle stalle scenari epici per le loro lotte estenuanti… Non c’era la possibilità di ascoltare musica e allora si cantava insieme; non esisteva la televisione e allora si guardava il volto dell’altro, lo si scrutava con attenzione, lo si leggeva; non c’era la possibilità di navigare su internet e quindi ognuno parlava delle proprie storie: la vigna, il campo di grano, il bosco da pulire, le beghe di paese... Nostalgia di Natali “poveri ma belli”? No, piuttosto desiderio di pace e di gioia condivisa con le persone amate. Questo ancora illumina il Natale.
Pubblicato su: La Stampa