Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

Pasqua di Resurrezione

30/03/2013 23:00

ENZO BIANCHI

Omelie e Lectio,

Pasqua di Resurrezione

Amare Gesù è amare la resurrezione, credere Gesù è credere la resurrezione, sperare Gesù è sperare la resurrezione. La resurrezione è solo questione di...

Bose, 31 marzo 2013
Omelia per la Veglia Pasquale di ENZO BIANCHI​

Amare Gesù è amare la resurrezione, credere Gesù è credere la resurrezione, sperare Gesù è sperare la resurrezione. La resurrezione è solo questione di accoglienza di una parola, accoglienza che avviene nell’amore. Potremmo dire che la resurrezione è solo una questione di amore: non risponde a nessun processo, neanche al processo esegetico, intellettuale di interpretazione delle Scritture.

 

Siamo qui in assemblea santa perché crediamo che Cristo è in mezzo a noi, è il Vivente per sempre, è il Vincitore della morte, quella morte che opera in ciascuno di noi ma che il Vincitore della morte ha sconfitto per sempre. Ci siamo detti l’un l’altro che Cristo è risorto, non solo perché lo crediamo ma perché lo sperimentiamo, anche in questo rinnovato ricominciare nella sequela di Cristo. Ci siamo detti l’un l’altro che Cristo è risorto, perché sentiamo che se c’è in noi l’amore è perché lui ce lo ha donato, perché lui ci insegna a viverlo gli uni con gli altri. Abbiamo ascoltato la Parola del Signore che ci ha rivelato perché questo mondo esiste, perché noi siamo stati creati e in questo mondo siamo nati e ora viviamo. Questa Parola ci ha anche rivelato come lui, Dio, ha insegnato a noi uomini, a partire da Abramo, ad avere fede e fiducia. Tutto l’Antico Testamento è soltanto una pedagogia alla fede, alla fiducia. Dalla Parola abbiamo anche ascoltato la rivelazione che l’amore di Dio è più forte della morte (cf. Ct 8,6) e che nei tempi della pienezza Dio, per dirci questa verità, ha voluto diventare uno di noi: Dio si è umanizzato e Gesù di Nazaret è questo uomo che come noi è nato, è cresciuto, è vissuto, è morto; ma quest’uomo era il Dio vivente e vero umanizzato nella storia. Così noi questa sera facciamo memoria che la morte di Cristo non è stata la sua ultima realtà: è stata solo l’estremo della sua esistenza umana, quell’esistenza che Dio ha voluto abitare per poter dare morte alla morte e aprire a noi uomini la sua vita stessa, la vita divina ed eterna.

 

Ma sostiamo ora su questa buona notizia della resurrezione di cui Luca ci narra l’evento nel suo vangelo (Lc 24,1-12). Protagoniste del racconto sono le discepole: Maria di Magdala, Giovanna, Maria di Giacomo e altre donne di cui non conosciamo il nome, ma Luca nei versetti precedenti al nostro testo aveva precisato che “erano venute a Gerusalemme con Gesù dalla Galilea” (Lc 23,55), che avevano seguito Gesù, dunque erano sue discepole. Queste donne durante la passione di Gesù avevano visto da lontano la sua crocifissione (cf. Lc 23,49), la sua morte, e poi si erano avvicinate al momento della sepoltura, seguendo il corpo di Gesù deposto da quei suoi amici nel sepolcro. Queste donne erano tornate a casa la sera di quel venerdì 7 aprile per preparare unguenti profumati in modo da poter ungere il corpo di Gesù. Il sabato poi avevano riposato, osservando così la Legge (cf. Lc 23,56).

 

Ma al mattino presto del primo giorno della settimana, potremmo dire appena fu loro possibile, tornarono al sepolcro per fare quelle unzioni sul cadavere di colui che avevano seguito, amato e confessato come profeta. Ma ecco, vedono che la pietra che chiudeva il sepolcro era stata rotolata via, ed entrate non trovano più il corpo di Gesù. Questa è la storia, questo è il racconto che appartiene al nostro sapere, al nostro constatare, al vedere umano. La tomba in cui era stato deposto Gesù nell’alba di quel primo giorno della settimana era vuota, e il corpo di Gesù non era più là. Non solo le donne, ma poi Pietro e l’altro discepolo che vanno al sepolcro, e così tutti quelli che volevano rendersi conto, potevano vedere effettivamente un sepolcro vuoto. Luca dice che allora le donne restarono perplesse, “en tó aporeîsthai” (Lc 23,4): sono in un’aporia, sono in una situazione di sospensione, potremmo anche dire che sono in una situazione di epoché, in una situazione vuota che non è chiusa e non conclude, una situazione che è capace di attesa, attesa che qualcosa accada, attesa di capire, attesa soprattutto di una rivelazione, di qualcuno che alzi il velo. La traduzione italiana che avete ascoltato dice: “Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo” (Lc 23,4), ma è una traduzione che va oltre, dà già una interpretazione. Luca ci testimonia in verità che c’è stato un vuoto, una sospensione. Le donne avevano visto Gesù morto, avevano visto il suo cadavere deposto nel sepolcro: come è possibile che non ci sia più? C’è una sospensione, un’epoché.

 

Prendiamo sul serio questa sospensione tra l’evento della sepoltura e ciò che accadrà. E che cosa accadrà di nuovo nella storia, di nuovo costatabile? La nascita di una comunità. Ma tra il cadavere di Gesù morto e la nascita della chiesa c’è questa aporia, questa sospensione. Che cosa accadde in questa situazione, che Luca qui descrive come una situazione di pochi minuti in cui furono le donne, ma che noi dobbiamo pensare come un’aporia esistenziale in tutta la comunità dei discepoli del Signore, un’aporia che con ogni probabilità è stata diversa da discepolo a discepolo, come ci testimoniano i vangeli? Potremmo dirci – e sarebbe logico, lo fanno molti che vogliono interpretare la resurrezione – che c’è stata forse una riflessione da parte delle donne, dei discepoli su quegli anni passati con Gesù, su quella sua morte, per concludere che l’opera di Gesù non poteva finire così, doveva quindi continuare. Ci sarebbe stato dunque un processo intellettuale che avrebbe portato alla fede nella resurrezione di Gesù? Molti lo hanno pensato e lo dicono. No, ci dice il vangelo. Potremmo anche chiederci: c’è stata un’elaborazione interiore della vicenda di Gesù? Un’elaborazione interiore che avrebbe generato la credenza che lui doveva essere vivo? Sarebbe un’operazione psicologica. No, non è neanche un’operazione psicologica.

 

Luca ci testimonia che c’è stata una Parola venuta da altrove, una Parola che non poteva essere nell’uomo, un pensiero che non poteva venire da carne e sangue. L’uomo, la carne, il sangue, il suo intelletto potevano solo restare in quell’aporia, in quella sospensione. Ma ecco venire una Parola che poteva venire soltanto da Dio, e quella Parola è detta da due uomini che si presentano improvvisamente alle donne. Luca li descrive come due uomini di luce, con vesti sfolgoranti, cioè due uomini che erano dei messaggeri di Dio, portatori della Parola di Dio. Per questo le donne provano paura, phóbos, e si chinano come abbagliate, guardando a terra (cf. Lc 23,5). Ma ecco le parole, le uniche importanti, non la tomba vuota che sarebbe stata insufficiente, non dei processi psicologici o intellettuali, ma una Parola che viene da Dio: “Perché cercate tra i morti il vivente? Non è qui, è risorto” (Lc 23,5-6). È una parola che alza il velo, una ri-velazione su quella che era un’aporia, una sospensione senza senso, una situazione in cui poteva solo permanere un velo. E poi un invito: “Ricordatevi come vi parlò, quando era ancora con voi” (cf. Lc 23,6). Ecco la rivelazione completa. È molto facile sapere chi sono questi due nella rivelazione di Luca: sono gli stessi che erano presenti nella trasfigurazione di Gesù; Luca li aveva presentati: “Ed ecco due uomini, apparsi nella gloria”, specificando allora che erano Mosè ed Elia (cf. Lc 9,30-31). Qui Luca non deve più specificarlo, perché il lettore del vangelo giunto fin qui sa che due uomini splendenti, apparsi nella gloria, sono Mosè ed Elia. Ecco che cosa trovano le donne nella tomba: trovano le sante Scritture, trovano la Legge e i Profeti che invitano però a essere riletti sulla vita e sulle parole di Gesù. Neanche loro soltanto sarebbero bastati all’annuncio pasquale. Sono loro che testimoniano e dicono: “Ecco, rileggeteci, ma sulle parole e sui fatti di Gesù!”. Invito a una consapevolezza, a una vigilanza, a un custodire le parole e i fatti, a un ricordare, a non lasciare cadere nulla di ciò che le donne avevano vissuto con Gesù.

 

E questo invito dell’angelo non è un invito a un esercizio intellettuale, tanto meno a un esercizio psichico, mnemonico: è un invito a un esercizio di fede e di amore. Non si trattava di ricordare un insegnamento come facevano gli ebrei, tra i quali un rabbino ricordava l’insegnamento del suo maestro, ma di un ricordare rivivendo. Ecco perché i Dodici dovranno imparare dall’ascolto di queste donne (cf. Lc 24,8-11); dovranno imparare dall’azione di un viandante che in un’osteria di Emmaus spezza il pane (cf. Lc 24,13-35); dovranno imparare da un giardiniere che chiama per nome la Maddalena (cf. Gv 20,11-18), ma in un modo suo; dovranno imparare da come uno sconosciuto sulla riva del lago dà loro da mangiare (cf. Gv 21,1-14). Tutto questo è possibile se Dio alza il velo. Ma per raccogliere la rivelazione, occorre davvero essere coinvolti nella vita di Gesù, occorre aver conosciuto il suo amore fino ad amare; e allora sì, allora si conosce davvero Gesù. E oserei dire di più: si conosce allora la resurrezione. Mi ha sempre impressionato che nello straordinario affresco riguardante la resurrezione, che tutti voi conoscete, presente nella chiesa di san Salvatore in Chora a Costantinopoli, stia scritto: “He anástasis Iesoûs Christós”. Attenzione: non “La resurrezione di Gesù Cristo”, ma “Gesù Cristo è la resurrezione” – non c’è nessun genitivo –, “Gesù Cristo è la resurrezione”. Per questo noi cristiani possiamo dire che, come Gesù Cristo è il Vangelo e il Vangelo è Gesù Cristo, così la resurrezione per noi è solo Gesù Cristo e Gesù Cristo è la resurrezione. Ecco perché amare Gesù è amare la resurrezione, credere Gesù è credere la resurrezione, sperare Gesù è sperare la resurrezione. La resurrezione è solo questione di accoglienza di una parola, accoglienza che avviene nell’amore. Potremmo dire che la resurrezione è solo una questione di amore: non risponde a nessun processo, neanche al processo esegetico, intellettuale di interpretazione delle Scritture.

 

Nell’antifona pasquale noi cantiamo: “Surrexit sicut dixit! Alleluja!”, “È risorto come ha detto! Alleluja!”. Certamente questa è un’eco della parola dei due uomini, di Mosè ed Elia: “È risorto, come aveva detto” (cf. Lc 24,6). Ma in un manoscritto medioevale c’è una variante che è straordinaria. Non sappiamo da dove derivi, può anche darsi che questo amanuense che ricopiava abbia fatto addirittura un errore: o beata colpa, in questo caso! Perché lui ha trascritto: “Surrexit sicut dilexit”, “Risuscitò come amò”, non “come disse (dixit)”. Si potrebbe dire: “è risorto come ha amato”, o anche – mi piace dire con Luca – “è risorto perché ha amato”, “hóti egápesen polý”. Vi ricordate le parole dette da Gesù alla donna: “Le è molto perdonato, perché molto ha amato” (Lc 7,47). Ma potremmo dire che uno risorgerà “hóti egápesen polý”, perché ha molto amato. La resurrezione è per sempre inscritta nell’amore, e non si può più dire la parola amore senza dire anche resurrezione. 

 

Gli antichi amavano dire éros-thánatos, amore e morte. Per noi cristiani è solo possibile dire: amore e resurrezione, perché l’amore è più forte della morte, e l’amore per noi è resurrezione. Questa è la nostra fede cristiana: dipende da una rivelazione, da una Parola di Dio, che noi accogliamo ricambiando il Signore semplicemente con l’amore. Se lui surrexit sicut dilexit, ognuno di noi risorgerà come ha amato.