Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Trasfigurazione del Signore

05/08/2012 01:00

ENZO BIANCHI

Omelie e Lectio,

Trasfigurazione del Signore

Cari fratelli e sorelle,ancora una volta siamo in veglia, ben desti in questa notte, siamo insieme, radunati nello stesso luogo per contemplare Gesù Cristo...

Bose, 5-6 agosto 2012    
Omelia di ENZO BIANCHI

Cari fratelli e sorelle,
ancora una volta siamo in veglia, ben desti in questa notte, siamo insieme, radunati nello stesso luogo per contemplare Gesù Cristo, l’uomo Gesù che ci ha raccontato Dio (cf. Gv 1,18) e l’ha potuto fare vivendo pienamente da uomo, uomo come noi e come ciascuno di noi. Noi guardiamo a Gesù, cerchiamo il suo volto, teniamo fissi gli occhi su di lui (cf. Eb 12,2), gli occhi del cuore certamente, perché in questo nostro sguardo la nostra ragione e il nostro cuore, la nostra intelligenza e il nostro sentimento trovano un punto, focalizzano un centro al quale noi sentiamo di affidarci, di consegnarci totalmente. In questo centro sentiamo che le nostre vite possono avere senso, possono essere salvate, potremmo dire. È guardando a Gesù Cristo che la nostra razionalità e la nostra affettività si integrano, per rendere possibile un’esperienza spirituale che ci edifica come uomini, uomini che devono essere sempre di più uomini veri, uomini autentici. È proprio guardando a Gesù, con gli occhi del nostro cuore, che impariamo da lui uno stile, una postura, nella quale gli altri possono trovare con ogni probabilità un riflesso di quella presenza buona, accogliente che aveva Gesù.

 

Questa contemplazione di Gesù tentiamo di viverla attraverso il vangelo di Marco che abbiamo ascoltato come parola che Dio rivolge a noi, qui, ora. Marco ha inserito il racconto della trasfigurazione di Gesù – ed è importante che notiamo questo, perché è Marco che ha creato il racconto del vangelo – dopo l’annuncio della passione e prima dell’annuncio del ritorno di Elia. Conosciamo bene l’incipit di questa sezione: «Gesù cominciò a insegnare», «érxato didáskein» (Mc 8,31), cominciò, incominciò. Quell’insegnamento è nuovo per i discepoli: è un insegnamento che urta contro tutto quello che Gesù aveva fatto e detto; è un insegnamento in cui Gesù dice che «il Figlio dell’uomo doveva soffrire molte cose» (cf. ibid.). E a questo inatteso, nuovo insegnamento di Gesù sulla necessità di soffrire molte cose, Pietro reagisce rimproverando Gesù (cf. Mc 8,32). Ma Gesù dà una lezione pubblica a quel suo discepolo che lo aveva preso in disparte (cf. Mc 8,33); Gesù che parla sempre chiaramente e non ha nulla da dire ad un discepolo personalmente, chiama a sé la folla e tutti gli altri e dice con voce molto alta: «Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34).

 

È una parola per ciascuno di noi, una parola di fronte alla quale possiamo anche sentirci inadeguati, ma è una parola che non dobbiamo annacquare, indebolire. Chi vuole stare alla sequela di Gesù e vuole essere suo discepolo, deve smettere di guardare a se stesso – questo è il vero senso del «rinnegare» –, deve smettere di riconoscere solo se stesso; e in questa operazione di non guardare a se stesso, di smettere di riconoscere se stesso, con tutte le forme di narcisismo e di egoismo che sono connesse allo sguardo su se stessi, occorre arrivare anche a perdere la propria vita. Ma questa, dice Gesù, è la condizione per essere riconosciuti dal Figlio dell’uomo quando verrà nella sua gloria con i suoi angeli (cf. Mc 8,38). Questa è la condizione per vedere il Regno di Dio che viene con potenza anche prima di morire (cf. Mc 9,1). Queste parole di Gesù devono apparirci decisive: o uno smette di guardare a se stesso per guardare a Gesù, e in Gesù guardare agli altri, oppure continua a guardare se stesso, e allora resta incapace di vedere il Regno che viene con potenza e non potrà essere riconosciuto dal Figlio dell’uomo, quando egli verrà.

 

Questo è quello che ci dice Marco, preparandoci così all’evento della trasfigurazione. Marco continua: ed ecco, «sei giorni dopo» (Mc 9,2), sei giorni dopo questa parola, questo nuovo insegnamento di Gesù, ecco la realizzazione di questa promessa, non per tutti i Dodici, non per tutti i discepoli, ma per almeno tre, Pietro, Giacomo e Giovanni. Gesù prende con sé questi tre, che non erano i più amati da lui: guai se diciamo che erano prediletti, come diciamo del discepolo amato da Gesù nel quarto vangelo; erano amati, amati in modo diverso e soprattutto amati in forza del grado della fede che avevano e del coinvolgimento che avevano saputo avere con la vita di Gesù. Gesù «li conduce in disparte, soli» («kat’ idían mónous»: ibid.), e mentre gli altri stavano a valle, mentre gli ebrei festeggiavano vestiti di bianco la festa dell’Hoshannà rabbà, del grande Osanna, Gesù e i suoi sono in disparte, soli, su un alto monte.

 

E qui avviene una trasformazione, una metamorfosi, certamente di Gesù e forse anche dello sguardo dei discepoli. Sappiamo bene che su questa trasformazione si sono soffermati soprattutto i padri greci, dando alcune risposte che portano un sapore monofisita: quasi per non riconoscere ciò che in Gesù era veramente umano, finiscono per dire che Gesù era sempre trasfigurati e che qui si è trasfigurato soltanto lo sguardo dei discepoli. Sant’Andrea di Creta dice che Cristo non si è trasfigurato, è restato quello che era, ma è lo sguardo dei discepoli che è mutato, che è diventato capace di vedere ciò che prima non vedeva. Noi che non abbiamo la grazia e l’intelligenza di questi padri, preferiamo accogliere il testo evangelico il quale ci dice che il corpo di Gesù, quel corpo di uomo nato da donna, quel corpo di miseria, quel corpo «è stato trasfigurato» («metemorphóthe»: ibid.). Crediamo anche però che lo sguardo dei discepoli diventò capace di vedere «il sôma pneumatikón», «il corpo spirituale» (1Cor 15,44) del Figlio di Dio.

 

Poveri discepoli! Pietro che non capiva la necessità del patire molte cose da parte del Figlio dell’uomo, Pietro e gli altri che dopo questo evento, questa esperienza evento di fede continuano a domandarsi: «Ma che cosa significa risorgere dai morti?» (cf. Mc 9,10). Poveri discepoli, immagine di tutti noi, immagini delle nostre chiese, immagine delle nostre comunità intontite, che non capiscono: siamo noi, ciascuno di noi in questa condizione. Però sul monte Gesù è stato visto da questi discepoli così inadeguati, in altra forma, nella forma della gloria, splendente e luminoso come l’Elohim del salmo 76 che abbiamo cantato nei vespri: «Splendente di luce sei tu e magnifico nell’alto delle montagne eterne» (Sal 76,5). Ma in quel momento la voce del cielo lo chiama Figlio amato, cui deve andare l’ascolto dei discepoli: «Ascoltatelo!» (Mc 9,7). Certamente per vedere Gesù nella gloria, per sentire questa voce del Padre, i tre discepoli avevano perlomeno predisposto tutto perché in loro potesse operare la grazia; non erano capaci di capire, ma erano capaci di accogliere il dono del vedere, e del vedere ciò che occhio d’uomo non vide (cf. 1Cor 2,9), non può vedere.

 

Sappiamo tutti che la capacità dell’occhio di svolgere la sua funzione si regge sulla sua incapacità di percepire se stesso, di guardare a se stesso. È la legge dei nostri occhi: noi vediamo perché l’occhio non vede se stesso. Ma così è anche del nostro occhio spirituale: per vedere Cristo un discepolo non deve guardare a se stesso ma guardare a Cristo, guardare all’altro, agli altri. Gesù con quella sua predizione della passione aveva invitato i discepoli a guardare in modo diverso a lui, ad assumere quel nuovo insegnamento che dava un altro sguardo, un’altra ottica; ma soprattutto aveva insegnato, se leggiamo bene il vangelo, a non guardare a se stessi e neppure a guardare a Gesù pensando come si pensa a se stessi, perché anche questo può accadere purtroppo! Chi infatti guarda troppo a se stesso si perde. Solo chi guarda, pensa, ha cura degli altri salva la sua vita e continua a guardare vedendo, altrimenti guardando a se stesso guarda senza vedere. Vedere con altri occhi, andare avanti cercando di vedere l’invisibile (cf. Eb 11,27), questa è la nostra vita dietro a Gesù, questa è la nostra scommessa. Pietro il Venerabile dice che noi monaci dovremmo essere dediti all’arte della perscrutatio, del vedere in profondità, del vedere oltre, del vedere sempre l’altro: l’Altro con la «a» maiuscola, Dio, l’altro che nel quotidiano è semplicemente chi incontro ed è sempre un mio fratello. È con uno sguardo altro che i tre discepoli hanno potuto vedere nella trasfigurazione la passione, di cui parlano Gesù, Mosè ed Elia (cf. Mc 9,4), e più tardi hanno potuto vedere nella passione la trasfigurazione.

 

Questa lettura della trasfigurazione vuole essere un invito a non guardare a noi stessi, altrimenti la nostra vita monastica può diventare una vita non cristiana. Non dimentichiamocelo: gli altri sono richiamati dalla realtà dei figli, sono richiamati dalla realtà dell’amore di un amante. Noi che non siamo richiamati da queste cose rischiamo di guardare a noi stessi, e sovente nella vita monastica il celibato è un narcisismo, né più né meno, che impedisce di vivere ciò che il Signore chiede da una vita monastica: non guardare a se stessi, andare avanti, guardare a Cristo. Ammiro quei monaci che arrivano nell’anzianità ad avere anche una fede scarsa, ma che sanno mantenere l’amore per il Signore Gesù e continuano a guardare a lui, e non a guardare a se stessi.

 

Ecco, mi rivolgo con queste parole a Chiara e a Sara, non ho altre parole da rivolgere loro, perché Chiara e Sara possano vedere altrimenti, vedere con il cuore, vedere le realtà invisibili che non passano (cf. 2Cor 4,18) e che dunque sono decisive per noi, decisive per la morte o per la vita. Chi perde la sua vita per gli altri, anche se magari la perde male, in verità la perde per Dio e in Dio, e dunque la salva, anche se apparentemente sembra essere più perduto degli altri. Dopo questi tanti anni, ben più di sette, Chiara e Sara attraverso una lotta spirituale sono giunte all’ora dell’impegno definitivo davanti al Signore e alla chiesa. Entrano nella nostra alleanza e sono portate a un primo adempimento della vocazione cristiana che è stata data loro nel battesimo. È un primo compimento, ma questo è un nuovo inizio, perché la vita cristiana è «un ricominciare sempre di inizio in inizio, per inizi che non hanno mai fine» – ci ricorda Gregorio di Nissa –, è un riprendere la sequela in una nuova condizione. Chiara e Sara, cercate di perseverare, per giungere all’ora in cui il Signore compirà totalmente in voi ciò che da sempre ha preordinato: lo compirà lui, voi vi accorgerete che non riuscite a compiere nulla, ma il Signore porterà a quel compimento (cf. Fil 1,6), accogliendovi nel Regno eterno. Lì si misura la propria salvezza, lì si misura il senso della propria vita.