Avvenire, 1 novembre 2015
di ENZO BIANCHI
È giunto l’autunno e per la nostra terra inizia un tempo di “riposo” che a volte può sembrare anche un tempo di morte: gli alberi lasciano cadere le loro foglie che, colorate di festa, scendono danzando fino a raggiungere la terra. Avanza il freddo, la notte si fa più lunga, nebbie e brume rendono debole, diafana la luce del sole. È in questa stagione, significativamente dopo gli ultimi raccolti, che celebriamo la memoria dei morti, di uomini e donne nati e vissuti sulla nostra terra e che ora hanno nuovamente raggiunto quella terra da cui sono stati tratti.
Sì, per i viventi è necessario fare memoria, ricordare, evocare quelli che non sono più accanto ma che hanno fatto parte della loro vita e hanno lasciato in loro tracce diverse nella mente e nel cuore. Sappiamo che la sepoltura e le tombe per i morti risalgono a cinquantamila anni fa, all’uomo di Neanderthal: il corpo del morto non era abbandonato in preda agli animali o alle intemperie ma veniva messo in una grotta, sotto terra, adagiato in una posizione di riposo e attorniato da pietre e oggetti che diventavano come un segno – e forse anche un’offerta – lasciato dai vivi per il morto. Anche l’homo sapiens, nostro antenato in Europa, seppelliva i suoi defunti, in modo ancor più ricco di offerte e ornamenti.
Perché questo bisogno, che differenzia in modo evidente l’essere umano dagli animali, i quali abbandonano il cadavere senza particolari attenzioni? Non potremo mai dare una risposta soddisfacente, tuttavia questo gesto del seppellimento indica una cura, il sentimento di un legame tra chi è morto e chi vive, un bisogno di ricordare il corpo della persona scomparsa e di ringraziarlo con doni. Forse in tutto questo cerimoniale antichissimo albeggiava già una speranza riguardo alla morte: che questa non fosse l’ultima parola e che si potesse attendere un “oltre la morte”, un “al di là” della morte. Così in Egitto la sepoltura, la tomba, il ricordo dei morti diventerà uno dei fondamenti della cultura di quel popolo.
Quanto all’ebraismo, fin dalla sua origine abramitica è attestata la preoccupazione di discernere un luogo per deporre chi è morto, il desiderio di possedere una tomba. Abramo, il padre dei credenti cui Dio ha promesso una “terra”, in realtà muore senza possedere terra, eccetto un campo con una caverna, quella di Macpela, comperata dagli hittiti per seppellire sua moglie Sara. E lui stesso troverà lì sepoltura (cf. Gen 23). Nella storia di salvezza è importante questa volontà di Abramo di avere un sepolcro, testimonianza che un uomo, una donna hanno vissuto su questa terra, hanno avuto legami con chi è loro sopravvissuto. Questo ancora oggi costituisce una memoria che rende consapevoli che ciascuno di noi è preceduto da altri e che vi è continuità tra le generazioni. Sepoltura e tomba per i morti sono un rito “religioso”, cioè che “rilega”, unisce l’individuo alla comunità umana: sono quindi segni necessari per la vita più che per la morte.
Il cristianesimo – generato dal grembo dell’Antico Testamento e dall’evento della risurrezione di Gesù, vittoria della vita sulla morte – ha dato un significato ancora maggiore alla sepoltura e alla tomba. Il corpo di chi muore è stato tempio dello Spirito santo, membro del corpo del Signore Gesù Cristo. Ed è destinato alla risurrezione, come afferma la professione di fede proclamata da ogni cristiano: “credo alla risurrezione della carne e alla vita per sempre”! Per questo la chiesa ha una liturgia per la morte del cristiano e per la sua sepoltura, per questo i cristiani hanno onorato più di altre culture le spoglie mortali, per questo hanno voluto attraverso il segno di una tomba, semplice o monumentale, fare memoria di chi è morto e renderlo presente nell’intercessione di tutta la comunione dei santi del cielo e della terra.
Oggi questa consapevolezza essenziale del destino dell’umanità, questa “sacramentalità” del corpo anche morto e della tomba che lo “localizza” sta venendo meno, causando una grave ferita alla fede cristiana. La pratica della cremazione, ormai ammessa da più chiese, oltre a restare estranea alla tradizione cristiana, impoverisce e indebolisce quella “comunione” che il cristiano deve sempre avere non solo con i vivi ma anche con i morti. Se c’è dispersione delle ceneri, se non c’è più un segno per chi è passato su questa terra, se non c’è più un richiamo che ci chieda prossimità e dono – almeno ogni tanto, tramite la visita al cimitero e l’offerta di un mazzo di fiori o di una fiammella di luce – allora diventa difficile conservare il legame con i morti e anche “fare lutto”. Sì, senza un riferimento preciso al corpo morto, anche il lutto è più difficile e la preghiera stessa per i morti non è più sollecitata a essere intercessione presso il Signore. Nessuno di noi si salva da solo: unicamente in una comunione di preghiera noi attestiamo di essere capaci di fraternità e di sororità anche con i morti.
Ecco l’importanza di pregare per i morti con le semplici espressioni del requiem che un tempo tutti conoscevano a memoria, anche in latino: “L’eterno riposo, dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce eterna, riposino in pace”. Preghiera semplice e breve ma che esprime tutto il necessario per fare memoria dei morti davanti al Signore della vita. Chiediamo riposo, perché la vita è un duro mestiere, accompagnato da fatiche: infatti, anche se si ama questa terra sulla quale Dio ci ha chiamati e posti, il viverla genera una stanchezza che invoca riposo. Riposare non è così facile, eppure è necessario: riposare anche dalla lotta di resistenza alle tentazioni spirituali… La vita del cristiano è un combattimento spirituale, a volte durissimo, e si giunge a un certo punto della vita in cui si è stanchi… Ecco allora la promessa: la lotta contro il male sarà vinta e “i morti si riposeranno dalle loro fatiche” (Ap 14,13). E su di loro possa risplendere la luce per sempre che è Gesù Cristo, il primogenito della creazione, il fratello di ogni essere umano, colui che, essendo Dio, si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio. Essere nella luce significa essere nella comunione con lui per sempre, addirittura essere “partecipi della vita di Dio” (2 Pt 1,4). Quando noi, ancora in vita, pensiamo con amore ai nostri morti, cosa possiamo desiderare per loro, cosa possiamo chiedere al Signore? Che conoscano lo shalom, la pace che è vita perenne e gioia senza fine. La memoria dei morti ci chiede di estendere la festa della comunione dei santi, celebrata il giorno prima, anche a loro: comunichiamo tutti in uno, Gesù Cristo, il risorto da morte, il Vivente per sempre.
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